lunedì 16 dicembre 2019

La donna che aspettava (Andrei Makine)

Leggenda vuole che due monaci abbiano incontrato Andrei Makine e gli abbiano detto che lui nel suo campo (la letteratura) ha raggiunto lo status di santo. Come tutti gli episodi nella vita di questo autore senza nome (Andrei Makine e Gabriel Osmonde sono entrambi nomi d'arte), potrebbe essere inventato. Santo, mendicante che scrive il suo capolavoro nella cappella del cimitero Père-Lachaise, soldato ferito in combattimento risvegliatosi dal coma, orfano o figlio di internati nei gulag cresciuto da una nonna francese... Ciò che conta è l'opera. E l'opera è sublime. La donna che aspettava è un'opera d'arte tanto semplice e perfetta da lasciare il lettore terrorizzato davanti all'insensatezza della propria vita. Mi permetto di paragonarla a Suicidio di Edouard Levé, per la straordinaria forza espressiva. Entrambi sono artisti che hanno il coraggio di essere se stessi fino in fondo (Levé fino al suicidio, pochi giorni dopo avere firmato il contratto editoriale). Immergersi nelle pagine di Makine è un'esperienza estrema: letta la fine, ho alzato gli occhi e mi sono stupito di essere a Milano, sul divano di casa. Il paese di Mirnoe, la quiete della taiga, le sponde del Mar Bianco e Vera, la donna che aspetta il ritorno del suo uomo... Tutto era stato così reale che risvegliarsi a casa propria non sembrava possibile. La Russia di Makine è un luogo geografico e dell'anima allo stesso tempo. E' la Donetsk in primavera che ricorderò per sempre, la prima notte d'amore a Mosca con mia moglie, il lago d'autunno, l'infanzia piena di sogni di un bambino malinconico. Davanti a un vero capolavoro s'intuiscono verità assolute. "A un certo livello di prostrazione, la vita smette di essere cose. La realtà... diventa verbo. A un certo grado di sofferenza, il dolore ci consente di vedere pienamente la bellezza immediata di ogni istante... Forse è a quel punto, soltanto a quel punto che la necessità di fissarla in un libro diventa assoluta."

lunedì 18 novembre 2019

Un incontro inaspettato

Questa mattina (18 novembre 2019) passeggiavo con Wigo al guinzaglio, nel giardino di Citylife. Si è avvicinata una signora - ero fermo, Wigo faceva pipì - e mi ha fissato. Ho pensato: "Che palle, la solita pazza che chiede soldi", però non aveva l'aria di una mendicante. Stavo per andarmene, quando lei mi ha detto: "Ho letto un suo libro".

Tra tutto quello che poteva dirmi, era davvero la frase più inaspettata! Le ho sorriso: "Davvero, quale?" "Undici al 17". Di quel libro (purtroppo per l'editore Zerounoundici) avrò venduto al massimo cento copie, la maggior parte alla presentazione. Ero incredulo: "Lo ha comprato?" "Sì, certo".
Guarda il cane: "Lui è Kant?" "Sì e no. E' il cane del libro, ma in realtà si chiama Wigo". Annuisce: "Mi è piaciuto molto, mi ha fatto ridere e piangere. Poi tutte quelle meravigliose citazioni...".
"Sì, me ne scuso, erano troppe e David Frati lo ha notato e mi ha un po' stroncato". "No no, mi hanno fatto scoprire i racconti di David Foster Wallace".
Mi stringe la mano: "Vado a lavorare, buona giornata".
Resto lì, inebetito. Consapevole di essere l'unico non scrittore che ha avuto una stalker e che è stato fermato per strada da una sua lettrice. Scrivo a mia figlia, che è a Losanna all'Università. Mi risponde: "Come ha fatto a riconoscerti?"
"C'è la mia fotografia sulla quarta di copertina". "Sì ma eri molto più giovane". Scetticismo, incredulità... Eppure è successo proprio così ed è stato strano e emozionante, come spesso sono le prime volte.

lunedì 4 novembre 2019

Lettera a Stefania Lovati - Zerounoundici Edizioni

Gentile Signora Lovati,
venerdì scorso, a tempo di record, ho ricevuto la Vostra risposta e la bozza di contratto. Sono molto contento che il mio romanzo sia stato apprezzato, Lei sa che io reputo Lei personalmente e la Sua casa editrice tra i pochi soggetti seri e affidabili in un mondo di boriosi sprovveduti.
In questo lungo fine settimana, ho approfittato del cattivo tempo (ero a Portovaltravaglia, non lontano da Cocquio Trevisago) per rileggere L'uomo di seta. La mia sensazione è che sia un bel romanzo, ma ho come l'impressione che abbia delle potenzialità inespresse. Ho già apportato molte correzioni, aggiunto cinque o sei pagine, ma ancora non mi convince il finale. In sintesi, ho bisogno di questo mese per lavorarci con calma.
Passando alla Sua proposta, io purtroppo devo dirLe con estrema sincerità che nessuno più mi legge. Il motivo è che sono un eterno esordiente che non ha ancora esordito. L'uomo di seta sarebbe il terzo romanzo che Lei mi pubblica, ma se alla prima presentazione di Tra un anno sarò felice è venuta gente, ho venduto libri, insomma qualcuno mostrava interesse, già Undici al 17 non l'ha letto nessuno e questo non saprei nemmeno più dove e a chi presentarlo.
Ciò che cerco di dirLe è che se davvero vogliamo investire, bisogna farlo insieme e in grande. Io credo nel romanzo, forse dovrei incaricare un'agenzia di lanciarlo (pagando i costi, ovviamente), scomodare qualche critico, fare una campagna di affissione in metropolitana (costa poco, lo so per motivi professionali). Sui premi letterari non m'illudo: ho vinto un Cesare Pavese inediti nel 2012, un Mondoscrittura e sono stato finalista al Morsellli, e allora? Non è successo nulla.
Signora Lovati, Lei penserà che io sia impazzito, ma o adesso o mai più. Non posso continuare a esordire per 10 anni... senza mai esordire.
Ho qualche soldo, un romanzo migliorabile, altri 3 romanzi nel cassetto: crede che insieme si possa fare qualcosa?
Se crede che sia inutile, se si aspetta che sia io a creare un effetto passaparola, temo un flop, come quello di Undici al 17: non Le faccio investire soldi su un flop, rifiuto la Sua proposta.
Io Le sono riconoscente, Lei ha creduto in me pubblicando Tra un ano sarò felice 8 anni fa. Mi fido di Lei... Se Lei pensa che investendo (io soldi, Lei tempo e conoscenze) possiamo farcela, allora cambia tutto. Cosa ne pensa?
GRAZIE, Alfredo   

mercoledì 30 ottobre 2019

Professor Mario Caccamo

L'uomo di seta è il sesto romanzo di Alfredo Tocchi. Mescolando i temi ricorrenti nella sua opera, Destino, illusione e nostalgia, Tocchi ottiene un risultato sorprendente, inaspettato per chi conosca tutti i suoi scritti precedenti. Ed è un risultato voluto, raggiunto grazie a una tecnica narrativa simile a una partitura musicale, in cui il tempo non è costante, da Larghissimo diviene Prestissimo. L'effetto è che la fine del romanzo ci coglie di sorpresa e il messaggio dell'autore ci colpisce con tutta la forza del toro quando carica la prima volta, per usare una metafora di Charles Bukowski.
Raccontando una storia che incomincia nel 1958 e finisce nel 2019, Tocchi compie un esercizio di riduzione all'essenziale, focalizzando la narrazione soltanto su ciò che è strumentale per comprendere la trama e ciò nonostante dando vita a una serie di personaggi indimenticabili (primo fra tutti quello di Cesarina). Tutto si svela nel finale, persino il titolo, e il messaggio (per fortuna) è limpido, di valenza universale ma non trattato con quella prosopopea, quella boria di salire in cattedra tipica di alcuni autori che vanno per la maggiore. Qui, al contrario, non ci sono riflessioni - rallenterebbero il ritmo - e proprio per questo, perché non è mediato dall'opinione dell'autore, incorna il lettore, costringendolo a una riflessione personale. In questo senso, si può affermare che Tocchi abbia inteso fare della poesia in prosa. L'opera è stata ispirata dalla visione di un cortometraggio del giovane regista italiano trapiantato a Hollywood Tommaso Frangini in concorso al Festival di Sarajevo, che mostrava immagini di un manicomio ed è dedicata "a tutti coloro che non hanno saputo trovare o ritrovare il ritmo giusto per restare in equilibrio". Tuttavia, il disagio mentale è poco più di un pretesto per esprimere il concetto che "tutto è successo troppo in fretta" e per questo l'uomo contemporaneo non riesce più a percepire l'harmonia caelestis. Mettendo da parte le digressioni filosofiche di Husserl e le notti di Milano (uscito per Zerounoundici col titolo Undici al 17, che ne rallentavano il ritmo ed erano state giustamente oggetto di una critica da parte di David Frati), abbandonando completamente l'approccio saggistico che caratterizza alcune parti de L'éléphant e lo rende un romanzo di difficile lettura, Tocchi compie un piccolo miracolo, tornando a quella spontaneità espressiva che era la forza, il vero pregio della sua opera d'esordio. L'uomo di seta è la conferma che Alfredo Tocchi è un artista, perché in ciascuno dei suoi romanzi è stato capace di rinnovarsi, pur restando assolutamente fedele ai propri temi.

martedì 29 ottobre 2019

La Musa




Nove anni e due mesi alla deriva. Un giorno di nove anni e due mesi fa sei partito per un viaggio che ti avrebbe portato lontanissimo o da nessuna parte, consapevole che sarebbe stato il grande viaggio della tua vita, consapevole che del tuo viaggio non fregava niente a nessuno. Hai scritto

GLI SPECCHI
Eccomi in scena
come sempre, puntuale.
Incomincio a recitare la mia parte
poi una pausa per permettere l’applauso.
Ma sono al buio
e non ci sono spettatori.
La platea è deserta
ma sul palco c’è una folla.
Tutti recitano
nessuno ascolta.
Poi finisce il primo atto
e come gli altri me ne torno nel mio camerino.
Mentre mi trucco
mi guardo nello specchio.
E mi dico di essere stato grande, forse il migliore
e vorrei vederlo scritto nelle critiche.
Ma tutti davanti al proprio specchio
Pensano di essere i migliori.
L’opinione che abbiamo di noi stessi non ci basta
così continuiamo a recitare.
E pensiamo che gli altri ci guardino
mentre gli altri sono davanti ai propri specchi.

Sapevi che gli altri sono davanti ai propri specchi, ma sei andato avanti, lasciandoti tutto il resto alle spalle.
Hai fatto tue le parole di Charles Bukowski

PER ESSERE UN GRANDE SCRITTORE
Ti devi fottere un gran numero di donne
belle donne
e scrivere qualche decente poesia d’amore.
e non preoccuparti per gli anni
e/o per i nuovi talenti.
bevi solo più birra
ancora e ancora birra
e va’ alle corse almeno una volta alla
settimana
e vinci
se puoi.
imparare a vincere è duro
qualsiasi stupido può essere un buon perdente.
e non dimenticare il tuo Brahms
e il tuo Bach e la tua
birra.
non fare troppa pratica.
dormi fino a mezzogiorno.
evita le carte di credito
e di pagare alcunché per
tempo.
ricorda che in questo mondo non c’è
un culo che valga più di 50 dollari (nel 1977)
e se hai la capacità di amare
ama innanzi tutto te stesso
ma sii sempre cosciente della possibilità di una
sconfitta totale
sia che la ragione di quella sconfitta
ti sembri giusta o sbagliata –
un prematuro assaggio di morte non è necessariamente
una brutta cosa.
stai lontano da chiese bar e musei,
e come il ragno sii
paziente –
il tempo è la croce d’ognuno
oltre
all’esilio
alla sconfitta
al tradimento
a tutto quel ciarpame.
stai con la birra.
la birra fa sangue.
un’amante continua.
procurati una grossa macchina per scrivere
e come i passi che vanno su e giù
fuori dalla tua finestra
picchia quella cosa
picchiala duro
fanne un combattimento da pesi massimi
fa come il toro quando carica la prima volta
e ricordati dei vecchi cani
che hanno combattuto bene:
Hemingway, Cèline, Dostoevsky, Hamsun.
se pensi che non siano diventati matti
nelle stanzette
proprio come sta succedendo a te adesso
senza donne
senza cibo
senza speranza
allora non sei pronto.
bevi altra birra.
c’è tempo.
e se non ce n’è
va bene
lo stesso.

Hai scritto qualche decente poesia d’amore

ESSERE
Ti chiedo scusa
Per quello che sono stato
E per quello che non sarò più.
Tu sei quello che ero
E quello che sarei stato.
Il verbo è lo stesso
Ma i tempi non combaciano.
Ma se fosse
Sarebbe stupendo
Essere.

Hai avuto il tuo prematuro assaggio di morte, e hai continuato il combattimento da pesi massimi.
Hai letto e riletto i vecchi cani che hanno combattuto bene: Hemingway, Cèline, Dostoevsky, Hamsun. E Charles Bukowski, naturalmente.
Sei stato sempre sempre cosciente della possibilità di una sconfitta totale, ma sei andato avanti, anche quando tutti, proprio tutti, ti deridevano. E ne sei cosciente anche ora, anche se sai perfettamente che questa volta hai davvero caricato con tutta la forza che avevi, come il toro quando carica la prima volta.
Sei pronto ad accettare l’ennesima sconfitta, a sopravvivere all’ennesima disillusione, anche se la ragione di quella sconfitta ti sembra sbagliata.
L’artista è l’infelice per antonomasia e più è grande più è infelice. L’hai imparato da tuo zio, che era un artista sublime. Ci voleva coraggio per ripercorrere le sue orme, tu l’hai fatto, lo stai ancora facendo. Solo, senza speranza. Per scrivere occorre essere soli, per ricreare la vita occorre prendere le distanze dal mondo.
Hai avuto cento donne, cento donne ti hanno lasciato solo. Ti sei sposato due volte, hai avuto due figlie, ma loro non ti leggono e chi non ti legge non sa chi sei e non vuole conoscerti: Pensiamo che gli altri ci guardino mentre gli altri sono davanti ai propri specchi.
Hai incontrato altri come te, ti sei illuso che tra affini si riuscisse a essere amici: sbagliato. Il narcisismo è la prima caratteristica degli scrittori, anche di quelli che non valgono nulla.
Ora, a 57 anni, ti resta soltanto la birra. Bevi altra birra c’è tempo e se non ce n’è va bene lo stesso.
Lucidamente consapevole, nel tuo scritto più profondo, quello che nessuno capirà mai, hai inviato un messaggio disperato ad Alice Banx: «L’amore è tutto. È l’unica cosa che può rendere tollerabile la mia sconfitta».
Anni prima, avevi scritto: «L’illusione di un amore, di essere in due, finalmente in due, può sconvolgere le nostre vite ben più di una scopata».
Ma chi poteva condividere con te nove anni e due mesi alla deriva?
Hai sognato una musa, una donna capace di mostrarti l’Arte, l’eterna magnificenza del Divino e sapevi che soltanto un’artista sarebbe stata all’altezza del compito. Il Destino te l’ha fatta incontrare in carne e ossa (splendida carne, splendide ossa), nella casa natale di un grande scrittore suicida. Certo, una musa non può essere brutta: tendiamo a identificare il Divino con la bellezza, dimenticandoci che anche la bruttezza è opera di Dio e soprattutto che l’uomo ragiona per contrari, senza bruttezza non sapremmo apprezzare il miracolo della bellezza.
Forse è stata la musa di un altro (un vecchio cane che ha combattuto bene), ma questo è un bene: se un giorno finalmente diventerai quello che sei, uno scrittore, lei sarà stata due volte musa.
E’ sposata - e lo sei anche tu - ma anche Dante e Beatrice erano sposati. In fondo, cosa si domanda a una musa? La vita matrimoniale è ciò che di più distante dall’arte si possa concepire, è prosaica al punto che artisti come Richard Yates o Franz Kafka sono fuggiti dal matrimonio proprio per continuare a essere artisti.
Davvero, cosa si domanda a una musa, soprattutto se lei è un’artista? Tuo zio ebbe Marilù Tolo, e fu un amore travolgente che finì male…
Ritornano in mente le parole di una canzone brasiliana, con cui incomincia un tuo racconto, La principessa del carnevale di Rio: cerchi un amore che sia
Uma razão para viver
E as feridas dessa vida
Eu quero esquecer...
Una ragione per vivere / E le ferite di questa vita / Io voglio dimenticare…
Hai imparato a fare a meno di molte cose – di quasi tutto – hai imparato a riconoscere i bisogni primari. Sai che la cosa più difficile è comprendere, che i nostri cinque sensi sono tutto ciò che abbiamo e non sono sufficienti. Sai che nessuno ha mai vinto arrendendosi, che l’amore richiede un impegno costante ed è un combattimento proprio come la scrittura, che la comunicazione verbale è importante quanto quella fisica ma stabilire un canale di comunicazione verbale con un altro essere umano è davvero difficile.
Sai tutto questo e t’illudi che lei possa diventare la tua musa…
Sei davvero l’uomo di seta, colui che ha in sé tutti i sogni del mondo!

mercoledì 3 luglio 2019

Messaggio a un (ex) amico scrittore

Non avrei voluto, avrei volentieri evitato di commentare. Prima di tutto, il mio giudizio non ti sarà di nessuna utilità: il romanzo è lì, pubblicato da un editore di quart'ordine, sbattuto via. Se fosse ancora un semplice manoscritto, ancora meglio se fosse soltanto un progetto, potrei cercare di dissuaderti. Ora è cosa fatta, definitiva. Sei convinto che sia un capolavoro, che gli editori di prim'ordine (ammesso che ne esistano) l'abbiano rifiutato perché pubblicano soltanto merda. Hai perfettamente ragione su quest'ultima considerazione, ma il tuo romanzo è stato rifiutato (io credo) per una molto più semplice ragione: è l'ennesimo tuo esercizio manierista di scrivere un romanzo gotico, fuori tempo, fuori luogo. Mi fa ribrezzo, trovo che sia quasi una perversione, questa tua pervicacia nel copiare modelli già stucchevoli nella loro epoca. Perdonami, ma me l'hai chiesto tu e ora devo andare fino in fondo: non mi interessa minimamente questa storia di lesbiche (che tu rendi asessuate, a causa della tua pudicizia,del tuo assurdo rifiuto della sessualità), ambientata nella solita villa sul solito lago. Sei un maestro dello stile, ma cosa significa? Forse chi è capace di dipingere un buon falso d'autore diventa per questo un autore? La tua visione della letteratura è all'opposto della mia: per me l'originalità è l'unico tratto distintivo dell'arte contemporanea, per te l'arte è una ripetizione del canone estetico che preferisci. Eppure, tu sei certo di essere un grande scrittore... Tra noi due, tu sei LO SCRITTORE. Io, da lettore, dovrei elogiarti. E' questo che ti aspetti, ti conosco. Il tuo narcisismo è patologico. Invece, per una volta, voglio essere sincero: detesto chi copia, chi scrive imitando. Posso ancora ancora giustificare chi imiti scrittori di successo al fine evidente di raccogliere un po' di luce riflessa, ma tu imiti un genere morto e sepolto (per fortuna, aggiungo io) e poi fai la vittima se ti pubblica l'ultima stamperia illusa che la bella forma abbia un significato. Ho orrore di tutto, lo scrivo e lo dico da anni. Io che non copio neppure me stesso, io che ho scritto quattro romanzi talmente diversi da non sembrare neppure dello stesso autore, io che prima di scrivere mi domando se ho qualcosa da dire, cosa debba scrivere oggi uno scrittore impegnato, io che sono talmente avanti che il mio romanzo sul transumanesimo verrà capito quando sarò morto (e sarà troppo tardi per una pubblicazione postuma, oggi non è più ipotizzabile), come posso giudicare questi palpiti del cuore di due lesbiche? La nostra amicizia non sopravviverà a queste mie parole. Come mi capitò con l'unico scrittore con cui sia stato davvero in sintonia nella mia vita, Massimiliano Comparin, non ci vedremo più. Ti auguro di cuore di non dubitare mai del tuo valore di scrittore, sono certo che il tuo ego smisurato ti proteggerà da un pazzo che ti scrive cose che non puoi capire. Io del resto non posso essere capito, né oggi né mai e comunque non da te. Amen

P.S. Mi hai insultato, poi deriso. Me lo aspettavo. Se credi che un uomo come me, che scrive da più di nove anni senza alcun risultato concreto, pagando personalmente il prezzo d'inseguire un sogno, non abbia i coglioni per passare sopra al tuo giudizio, non hai capito niente.

giovedì 27 giugno 2019

Discorso alla consegna del Premio Cesare Pavese 2012 - Sezione Narrativa Inedita


Alfredo Tocchi - Discorso alla consegna del Premio Cesare Pavese 2012 – Sezione Narrativa Inedita
In Italia, tutti scrivono: esiste la scuola dell’obbligo. Tutto è stato già scritto, ma nessuno più legge: perché io voglio scrivere? Forse perché potrebbe darmi piacere: Accorgersi che si era capaci di inventare qualcosa; di creare con abbastanza verità da esser contenti di leggere ciò che si era creato; e di farlo ogni giorno che si lavorava, era qualcosa che procurava una gioia maggiore di quante ne avessi mai conosciute. Oltre a questo, nulla importava.” (Ernest Hemingway). O forse perché, come scrisse Elias Canetti, lo scrittore aspira a una modalità di sopravvivenza, di trasmissione della vita, che è esattamente all’opposto di quella incarnata dal potente paranoico. Nella letteratura, come del resto in ogni altra forma d’arte, si concretizza il sogno di arrivare a una seppure relativa immortalità in modo pulito. Non si cerca di sopravvivere mortificando il prossimo: l’artista trasmette al prossimo le sue forze vitali in modo del tutto positivo. Chi legge un romanzo, ascolta un brano musicale o osserva un dipinto ritrova la personalità dell’autore. Il capolavoro è l’opera capace di trasmettere le sensazioni di un uomo vissuto magari in un’altra epoca a un lettore, ascoltatore o osservatore lontano nello spazio e nel tempo. Un uomo dotato di volontà di potenza, ma in senso buono. Soprattutto, un uomo unico, come tutti gli altri – l’unicità è il vero sottovalutato miracolo della vita - ma a differenza degli altri capace di lasciare una seppur piccola traccia del proprio passaggio, della propria originalità: per questo l’originalità è il vero, unico, tratto distintivo dell’opera d’arte contemporanea.
Da cosa nasce la necessità di scrivere? Paul Auster, un autore che amo per la sensibilità così simile alla mia, ha dato la risposta che preferisco: Dal dolore, la scrittura. Quando non si è più in sintonia con chi ci sta accanto, si cercano sconosciuti amici: i lettori. “Lo scrivere è proprio questa contraddizione che dal fallimento di una comunicazione crea una comunicazione ulteriore, che è parola per gli altri, ma parola senza l’altro.” (Roland Barthes, Miti d’oggi).
Voi mi avete letto, tra di noi si è stabilita una comunicazione e io vi ringrazio, dal profondo del mio cuore. La discreta eleganza del Professor Gatti s’intona con la sua cultura d’altri tempi. L’esuberante bellezza della Professoressa Romanelli non stona affatto con la serietà con cui svolge il suo compito di Presidentessa della giuria. Eravate due sconosciuti amici, ora che vi vedo in carne e ossa provo il desiderio di abbracciarvi.
Se qualcuno mi avesse domandato: “Come stai?”, gli avrei risposto che mi mancava Giordano.
Ma Giordano non esiste e nessuno – eccetto a volte il nostro medico – ci domanda come stiamo, per sentire veramente la risposta.
Per quasi tre anni ho vissuto in un mondo inesistente. Non tutto il mio tempo, certo. Ma comunque il tempo necessario per scrivere un romanzo. Mi sono moltiplicato per il numero dei miei protagonisti: ero la dolce Masha e la sua amica Galya. Ero Giordano e Aisha, il Professor Caccamo, Natalia, la Principessa del carnevale di Rio, il Maestro ed ero Giulio, naturalmente. Esistono personaggi letterari ben più noti e più vivi di uomini in carne e ossa che incontriamo tutti i giorni. Pensate a Don Chisciotte, a Ismaele, a Don Fabrizio Corbera Principe di Salina… Del resto, la letteratura è l’arte figurativa per eccellenza, perché consente di ricreare il pensiero astratto, la più alta caratteristica umana.
L’unico essere vivente che ho evocato nel mio libro che non è svanito è Wigo. Sono rimasto soltanto l’uomo col cane. E infatti Wigo è qui con noi, tra il pubblico, accucciato ai piedi di mia figlia.
Possono mancarmi i personaggi di un romanzo? Certo, perché è il mio romanzo. Un romanzo che resterà inedito, perché io non sono uno scrittore. Eppure, voi lo avete letto e mi avete reso meno solo, felice e fiero del Premio che mi avete assegnato. Qualche anno fa, mi sono risvegliato dal coma. Un’ischemia cerebrale ha cambiato per sempre la mia vita, mi ha fatto perdere le mie piccole sicurezze umane, le conquiste frutto di un duro lavoro. Se tutto può essere perso così, che valore può avere la vita? Che senso hanno le nostre conquiste, così effimere, così fragili? La letteratura mi è stata di aiuto. Leggendo Il vecchio e il mare di Hemingway, ho riflettuto sull’estetica della lotta. Lottare ci rende uomini, soprattutto quando siamo consapevoli dell’inutilità della lotta. Io ero ancora un uomo, anzi ero più che mai un uomo, liberato dai semplicistici pregiudizi sul mondo, la fede, le passioni. Dovevo trovare una valvola di sfogo: la consapevolezza brucia. Il mio nucleo era rovente. Così, istintivamente, ho iniziato a scrivere. La scrittura ha una funzione catartica: quando il dolore è talmente forte da isolarci dal mondo, è nella scrittura che cerchiamo un rifugio. Perché scrivere ci costringe a riflettere. E cos’altro possiamo fare se non riflettere e accettare il nostro Destino di uomini mortali? Dove possiamo fuggire? Inoltre, scrivendo lanciamo un disperato messaggio nella bottiglia a un’indistinta umanità capace di comprenderci, di essere al nostro fianco, di condividere la nostra sofferenza: la compassione è il più nobile dei sentimenti.
Ho condiviso con voi il frutto della mia sofferenza, della mia esperienza terrena. Sembra poco, ma per me – che volevo lasciare una seppur piccola traccia del mio passaggio - è tutto.
E’ davvero bello ritrovarsi qui, in questa casa che fu di Cesare Pavese, a parlare di letteratura. Avete saputo creare il clima intimo e piacevole di una serata tra vecchi amici. Sento un brivido lungo la schiena a parlare della solitudine degli scrittori qui, nella casa dove visse Lui. Per scrivere, occorre essere soli, lontano da quella che un altro grande scrittore suicida definì la dolorosa concitazione della vita. La scrittura attua una “sospensione dalla vita”. Pensate a Marcel Proust e alla sua stanza foderata di sughero… Scrivere ci costringe a guardarci dentro, il bravo scrittore impara a osservare il mondo con un interesse e una curiosità particolari, ed è particolarmente importante farlo oggi, in un momento storico in cui l’umanità sembra essere inebetita, costantemente alla ricerca di soddisfare bisogni indotti, senza più valori, senza una vera volontà di cambiamento, sempre con la mente altrove, davanti ai propri schermi, ignorante, indifferente, impassibile rispetto alla quasi totalità dei problemi importanti ma anche rispetto alle effettive esperienze altrui, tanto che uno scrittore del ventesimo secolo descrisse così la vita: “La vita è movimento. Un moto, però, circolare (intorno a quel piccolo nucleo che si chiama “io”), un moto talmente circoscritto che assomiglia a un piétiner sur place. Circoscritto dal gran cerchio d’ombra di tutto quello che sfugge alla nostra cognizione, o di cui non c’interessa cognizione. E non alludo allo scibile, né tantomeno al “mistero dell’universo”, alludo a ciò che rappresenta la realtà spicciola, la più vicina a noi.” (Guido Morselli, Dissipatio H.G.).
Del resto, come scrisse Dostoevskij, riflettere troppo sulla vita è già una malattia e richiede coraggio: Hopeless emptiness. Now you’ve said it. Plenty of people are onto the emptiness, but it takes real guts to see the hopelessness.(Richard Yates). Tuttavia, senza questo coraggio non si diventa grandi scrittori, si rimane alla superficie delle cose, non si è capaci di aprire quelle che proprio Yates definì “finestre sul mondo”, quelle pagine che misteriosamente ci rivelano qualcosa di realtà metafisiche inaccessibili ai sensi, perché, come tutti sappiamo “L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Il ricordo di questi momenti mi accompagnerà per sempre. Il sempre umano, naturalmente, che ha la durata di un istante che passa. Grazie.
(Il discorso non venne pronunziato per mancanza di tempo. Il romanzo premiato - Natale 2010, poi rinominato Dimmelo domani - è rimasto inedito).

lunedì 27 maggio 2019

Giunto a questo punto



Giunto a questo punto - davanti allo schermo del tuo computer, intendo – pronto a scrivere l’ennesimo romanzo che resterà inedito – ben sapendo che resterà inedito – consapevole che di te non importa niente a nessuno - anzi per qualcuno sei un fastidio - lucidamente disilluso, assolutamente consapevole dell’inutilità del tutto ma al tempo stesso convinto della nobile bellezza di combattere una battaglia inutile, ancora pulito nonostante la vita ti abbia costretto a sguazzare nel suo lurido fango, esausto e al contempo deciso a non darti per vinto (per quale motivo?), giunto a questo punto – davanti allo schermo del tuo computer, intendo – apparentemente scrivere o non scrivere non fa nessuna differenza, tanto - se sei a giunto a questo punto – è perché tutto ciò che hai detto, e tutto ciò che hai scritto, non è stato ascoltato né letto e la parola, la tua parola, risuona nel vuoto amplificandosi all’infinito quasi a darti la dimostrazione definitiva, scientifica, che tu sei un’illusione, uno scherzo di Dio (se esiste), un granello di polvere cosmica – o un istante di vita, se preferisci – del tutto privo di significato per l’universo e per quel Dio (se esiste) che ti ha dato la vita eppure – o forse proprio per questo – un granello di polvere dolente e disperato.
La domanda è sempre la stessa che ha afflitto tutti coloro che prima di te sono giunti a questo punto: “Se la mia storia non interessa a nessuno, perché io devo scriverla?” E, proprio a questo punto, capirai che il bisogno di esprimerti coincide con la necessità di dare un significato al tuo dolore e alla tua disperazione ma – se sei mediamente intelligente – rifiuterai tutte le balle sul significato del dolore, la sacralità della vita umana da cui discende la tua importanza individuale e tutta la litania di cretinate che forse potevano consolare i tuoi antenati ma oggi sono inutili pillole di zucchero colorato. Religione, psicoanalisi, meditazione, stordimenti naturali o artificiali li avrai presi in considerazione, escludendoli ad uno ad uno e arrivando finalmente al bivio dove sono passati tutti gli scrittori - almeno quelli veri – per poi giungere a questo punto.
Qui hai una sola scelta: scrivere o non scrivere. Scrivere ti farà stare anche peggio. Non scrivere ti farà rinunciare per sempre alla condivisione del tuo dolore e della tua disperazione. Sta a te decidere. Se scriverai e nessuno ti leggerà, sarà stata una fatica inutile. Se scriverai, qualcuno ti leggerà ma non sarà un successo, la tua delusione sarà bruciante. Se scriverai e sarà un successo, ma non grande come quello di Tizio, non riuscirai a fartene una ragione.
Soltanto se il successo sarà pari alle tue aspettative, forse sarai felice. Ma – se sei molto intelligente – capirai che la felicità e l’infelicità sono due facce della stessa medaglia, che è rimasta un mistero esattamente come all’inizio del tuo cammino. Un senso di vertigine potrebbe allora indurti a gesti estremi: del resto non saresti il primo né l’ultimo scrittore suicida.
Con questi pensieri in testa – giunto a questo punto – scrivi della vita lasciando da parte le domande e le risposte, concentrandoti unicamente sulla tua storia. E’ possibile che non interessi a nessuno, ma viverla nella tua fantasia ti aiuterà a distogliere il pensiero dal perché sei proprio lì, davanti allo schermo del tuo computer, intendo – pronto a scrivere l’ennesimo romanzo che (forse) resterà inedito.

mercoledì 20 marzo 2019

L'éléphant

Secondo una celebre frase di Gregor von Rezzori, lo scrittore è un uomo che passa il proprio tempo contemplandosi l'ombelico. Il narcisismo è una costante, l'onanismo motivo di vanto, l'autocompiacimento a volte imbarazzante. Tutte queste, tuttavia, sono caratteristiche dei cattivi scrittori (per quanto - a volte - di successo). Del resto, per scrivere occorre essere soli, chiudersi in una stanza, attuare una specie di sospensione dalla vita, isolarsi in un mondo di fantasia. “Lo scrivere è proprio questa contraddizione che dal fallimento di una comunicazione crea una comunicazione ulteriore, che è parola per gli altri, ma parola senza l’altro.”(Roland Barthes, Miti d’oggi). Quasi quattro anni fa, Alfredo Tocchi mi fece leggere l'incipit del suo nuovo, quinto romanzo L'éléphant: "Vorrei scrivere un romanzo di fantascienza distopica, come Noi di Zamjatin, Il mondo nuovo di Huxley o 1984 di Orwell, ma soprattutto come Dissipatio H.G. di Morselli, perché vorrei mandarlo al Premio, dal Professor Silvio Raffo".
L'idea mi sembrò buona, ma di difficile realizzazione per chi, come Tocchi, sembrava più portato per il Mainstream. Inoltre, in Italia, gli esempi di romanzi di fantascienza di successo sono pochissimi. Nel 2015, dopo aver letto le prime dieci pagine, in inglese, de L'éléphant, scrissi che ne ero rimasto ben impressionato: magnifico il prologo, che utilizza le parole del Vangelo di Giovanni e dell'Apocalisse per dare un tono di sacralità all'opera, altrettanto bello il passaggio alla narrazione in prima persona da parte di un ragazzino di 14 anni (Kim, che nella versione finale ne ha 16). Erano soltanto poche pagine, ma veniva voglia di conoscere il seguito, anche perché, assicurava l'autore, "La fine è bellissima!".
Tocchi è così, un entusiasta che non inizia un romanzo se non ne conosce la fine. Poi, per più di tre anni, nulla. La vita è andata avanti, ho letto con piacere le recensioni di Confessioni di un pazzo di raro talento, La principessa del carnevale di Rio, Undici al 17 su Nuove Pagine e Mangialibri (e l'intervista su Mangialibri), ma L'éléphant non arrivava. Ora è qui, sul mio Kindle e da pochi minuti ho terminato la lettura. L'urgenza di scriverne è tale che lo faccio in piena notte, dettando in fretta per non dimenticare nessuna delle cose che mi sono venute in mente ma non mi sono appuntato per non interrompere la lettura. L'éléphant non è un romanzo per tutti. Forse, non è neppure un romanzo. Fiaba filosofica intrecciata a un saggio sul transumanesimo, contiene una poesia, un discorso di Solgenitsin e persino un saggio su Kafka di Citati! Ancora una volta, Tocchi si dimostra un innovatore. Potremmo accostare la struttura dell'opera ai quadri di Mimmo Rotella: il materiale eterogeneo si fonde con un risultato armonico, fortemente espressivo. Già Undici al 17 conteneva riflessioni filosofiche, sociologiche e religiose, ma ciò che era (volutamente) abbozzato (e per questo, forse, scarsamente comprensibile, come notato da David Frati nella sua recensione), qui è compiutamente sviluppato e scritto magistralmente. Il libro nero (che riprende concetti di Auguste Comte, padre del positivismo), è un esempio di come andrebbe approcciata (nelle scuole) la divulgazione filosofica. Pur nella sua brevità, L'éléphant è un libro assolutamente compiuto: la trama è avvincente, i temi trattati fondamentali (transumanesimo e religiosità). La lettura è interessante anche per chi - come me - non fosse al corrente dei reali contenuti del transumanesimo. Vi sono spunti geniali (i cibi colorati, il giardino degli amori, il travisamento dei principi della rivoluzione francese, i droni impollinatori, la città dal nome Gaia Scienza in omaggio a Nietzsche), passi fortemente lirici - veri e propri pianissimo - e contrappunti: insomma, la musicalità della prosa dell'autore già notata dalla Professoressa Giovanna Romanelli nella sua recensione su Le colline di Pavese (il compianto Professor Luigi Gatti ha premiato Tocchi per ben due volte, nel 2012 - primo classificato nella Sezione Narrativa Inedita - e nel 2015 - menzione di merito!). Tuttavia, sono i dialoghi a sorprendere, per la loro semplice naturalezza e le chiose dell'autore, profonde e persino spiritose (degne di nota quella in calce al discorso di Solgenitsin e alla "epifania dell'autore"). Scrivere un romanzo come L'éléphant è tutt'altro che semplice. La fantascienza distopica richiede autori all'altezza del compito, colti, intelligenti e tecnicamente capaci. Forse è per questo che Tocchi ha abbandonato la lingua inglese e, dopo quattro anni di rinvii, è tornato all'italiano. Peccato, perché questo romanzo - in inglese e nelle mani di un buon editore - avrebbe tutte le caratteristiche per diventare un classico del genere e, nelle mani di un bravo regista, un film meraviglioso.
Mi spingo a fare una simile, forte, affermazione, influenzato dalla diretta conoscenza dell'autore, ma soprattutto dal suo percorso narrativo, esemplare, che definirei: io, noi, il mondo. Partendo dal Mainstream di Da A a B (la contemplazione dell'ombelico, che però era già del tutto peculiare dato che gli io narranti erano tre più un narratore), passando per l'indagine sociologica di Undici al 17, è approdato al mondo con L'éléphant, portando a termine una splendida trilogia. Consiglio a tutti di leggere Tocchi in quest'ottica, anche perché già sette anni fa alla presentazione di Tra un anno sarò felice era stato lui stesso a preannunciarci cosa avrebbe scritto. Bene, ha impiegato otto anni e mezzo della sua vita (settembre 2010, marzo 2019), ma ha fatto ciò che aveva promesso, a conferma della sua determinazione a farsi conoscere.  
Professor Mario Caccamo, 20 Marzo 2019