giovedì 17 dicembre 2015

L'importanza di giudicare (e giudicarsi)

"Non giudicate, per non essere giudicati; perché con il giudizio con il quale giudicate sarete giudicati voi e con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi." (Matteo 7,1)
Cosa desidera, più di ogni cosa, un artista? Essere giudicato. Ed essere giudicato proprio con il suo stesso metro di giudizio! Prima di esprimere luoghi comuni buonisti, rifletteteci. L'uomo - l'ho scritto molte volte - ragiona per contrari. Ha bisogno di un termine di paragone, di un metro con due estremità. Chi non si giudica non dovrebbe mai fare l'artista. Chi si giudica, si giudica confrontandosi agli altri, dunque giudica. A volte, non esprime giudizi in pubblico (pudore, educazione), ma questo non significa che non giudichi (e si giudichi). Giudicare significa confrontare la realtà con un'altra realtà o con la propria immaginazione. La spinta ideale, nell'artista che giudica, è evidente. L'artista deve essere originale e l'originalità nasce da una personale elaborazione della visione del mondo. Chi pensa di essere migliore perché non giudica, è un arrogante che si ritiene aprioristicamente superiore. Un esempio: io giudico le filosofie orientali la masturbazione dello spirito. Se non trovate nulla di meglio accomodatevi. Se il mio giudizio fosse diverso, forse vivrei più sereno. Ma da cosa deve fuggire, soprattutto, un artista? Proprio dalla serenità. La vera arte è lacerazione, è espressione del male di vivere. Se si vuole davvero essere artisti (ma è poi una scelta o una croce?), si deve giudicare.

martedì 29 settembre 2015

La recensione


“Un libro inutile. Fastidioso, autocompiaciuto, sgradevolmente pruriginoso, racconta storie di nessun interesse se non per l'autore. Dulcis in fundo, è pure scritto male.”
Leggo la recensione - una stella su cinque – due volte, poi una terza. E’ identica a quella già fatta a Confessioni di un pazzo di raro talento. L’ha scritta la stessa persona. Perché recensire due volte lo stesso romanzo (seppure pubblicato da due editori con titoli diversi)? Cerco le altre recensioni che ha postato su Amazon: ha elogiato la Mazzagatti, dato cinque stelle al libro della Scipioni, sfregiata con l’acido. Provo a calmarmi, ma quelle parole mi bruciano, soprattutto “è pure scritto male”. Ma c’è una cosa che non so spiegarmi: perché dopo avere recensito Confessioni, ha recensito pure Tra un anno sarò felice? Dove ha trovato la copia cartacea, visto che il libro è stato stampato in duecentosessanta copie subito esaurite tre anni fa? Sono sensibile alle critiche, mi feriscono. Lo so, dovrei infischiarmene: chi legge la Mazzagatti e la Scipioni cosa può capire di letteratura? Eppure vorrei far sparire quella recensione, almeno da Tra un anno sarò felice. La media di Confessioni è quattro virgola quattro su cinque, quindi una recensione negativa mi dà meno fastidio. La media di Tra un anno sarò felice era ancora più alta, ma non è mai stato venduto su Amazon, quindi quella è l’unica recensione e il punteggio resterà per sempre una stella su cinque. Cosa fare? Per prima cosa, provo a comprare la copia cartacea offerta in vendita. E’ l’unica, forse togliendola da Amazon spariranno per sempre Tra un anno sarò felice e la maledetta recensione. Così, senza pensarci oltre, acquisto la copia, spendendo quattordici Euro per riavere il mio libro. Fisso per l’ultima volta la fotografia della signora bionda che ha fatto la recensione: mi ricorda qualcuno, ma non mi viene in mente chi. No, forse mi sbaglio, non la conosco. Troppo vecchia - avrà quasi sessant’anni – non può essere un’amante delusa.
Una settimana più tardi, mi arriva il libro. Strappo l’involucro in portineria, giro la copertina e trovo una dedica: “A Egidio Vacchini, con stima e affetto.” Certo, ho autografato più di cento copie, c’erano buone probabilità che fosse autografato! Egidio Vacchini è un mio cliente. Lo conosco da venticinque anni. Un po’ mi dispiace che si sia venduto il mio libro. Però era suo, l’aveva pagato, aveva il diritto di farne ciò che voleva. Esco con Wigo, libro in mano, e vado a fare colazione. Mimmo, il barista, è un amico. Gli mostro il libro e lui mi domanda: “Posso leggerlo?”
“Certo, ma non te lo posso regalare, perché è l’unica copia che mi è rimasta.”
Torno a casa e non ci penso più. E’ la fine di settembre, Tanya è a Mosca, sono solo. La solitudine ingigantisce i pensieri tristi – almeno è così per me. Sono in attesa della recensione di David Frati su Mangialibri. Ha recensito positivamente Confessioni di un pazzo talento, ora deve recensire La principessa del carnevale di Rio. Entro la fine della settimana avrò la risposta di Zerounoundici: ho inviato Undici al 17 (La fenomenologia di Husserl e le notti di Milano - verrà pubblicato!). Sono nervoso, passo notti intere a editare i miei scritti: riprendo a lavorare sui vecchi file e auto pubblico su Amazon versioni integrali della mia trilogia. Nessuno la legge, è un lavoro faticoso e inutile. La mia attenzione al dettaglio ha aspetti patologici: cambio persino la punteggiatura, aggiungo una citazione, correggo un a capo: perché? Per chi? Eppure, leggendo sul mio Kindle le versioni integrali, sono soddisfatto del mio lavoro: Dimmelo domani e Dove fuggire sono rimasti inediti, ma io sono felice di averli scritti – e non sono indulgente verso i miei scritti.
Ieri mattina, Egidio Vacchini viene in studio. In realtà non ho più il mio studio, dopo otto traslochi ho ricavato uno studio in casa e lì scrivo e lavoro. Ci salutiamo con un abbraccio, venticinque anni sono tanti e le nostre vite sono state sconvolte da tanti avvenimenti. Io gli sono grato che sia rimasto mio cliente e lui mi è riconoscente per averlo aiutato nella sua separazione. E’ venuto per farmi leggere un contratto. Lavoriamo per più di mezz’ora. Terminato il lavoro, mentre lui riordina le carte e le mette nella cartella, io vado su Amazon e apro la pagina delle recensioni della signora bionda. “Egidio, posso domandarti se conosci questa signora?” Giro il computer.
Rimette gli occhiali da presbite, si avvicina allo schermo e mi dice: “Sì, certo.” Mi guarda con aria interrogativa.
“Sai se ha letto il mio libro?” Lo fisso negli occhi. Mi sembra che arrossisca un poco.
“Sì, lo ha letto. Le ho prestato la mia copia.”
“Posso farti leggere la recensione che ha postato?” Non attendo la risposta, vado alla mia pagina e la apro.
Legge in un attimo (sono meno di due righe) e mi racconta una storia incredibile: “Non prendertela, è una donna che ha avuto una vita difficile.”
“E allora, deve stroncare il mio libro per vendicarsi?”
“No, non credo che volesse stroncare il libro. Non dovrei dirtelo, ma le cose sono andate più o meno così…”
Mi racconta che lei è iscritta a Meetic. Una notte, mi ha inviato un messaggio. Io ero on line e le ho risposto subito che non chattavo con signore solari, soprattutto se erano bianche e avevano più di quarant’anni.
Qualche mese più tardi, a casa sua, lei ha visto il mio libro (e la mia fotografia sulla quarta di copertina era la stessa del mio profilo su Meetic). Gli ha chiesto: “Tu conosci questo idiota?”
“Sì, è il mio avvocato.”
Gli ha raccontato la storia di Meetic e si è fatta prestare il libro.
“Bene, salutala da parte mia. Spero che su Meetic abbia trovato l’anima gemella. Io mi sono iscritto a Afrointroductions e non mi è andata male.”

Questa è la storia. La morale è semplice: se scrivete (chi non lo fa, in Italia tutti scrivono, esiste la scuola dell’obbligo!) non trattate male persone sole sui siti per incontri. Potrebbero recensirvi… 

venerdì 18 settembre 2015

Il managerino

Se osserviamo attentamente la realtà, scorgiamo chiaramente che ogni azione viene valutata secondo tre criteri. Il primo, è quello estetico. Inutile dilungarsi in spiegazioni. Il secondo, è quello economico. Se io scrivo un romanzo e non ne ricavo un guadagno, la mia azione (scrivere) viene valutata negativamente. Il terzo criterio, è quello morale. Aiutare una persona in difficoltà viene valutato positivamente, anche se non se ne ricava un guadagno. Il giudizio morale, a livello individuale, ai nostri giorni è in disuso. Anzi, si potrebbe affermare che persino il giudizio morale, oggigiorno si riduca a un giudizio economico: la buona azione viene giudicata di valore se arricchisce economicamente il povero destinatario. Forse sarà perché non si crede più nell’equazione comportamento moralmente positivo = acquisto di crediti per entrare in Paradiso. Oppure perché secondo le teorie liberiste chi persegua un proprio personale vantaggio economico alla fine – senza rendersene magari conto – persegue anche il bene della società (un’eresia a buon mercato spacciata per una verità assoluta da ciarlatani: che uccida gli ultimi tonni del Mediterraneo per trarne un guadagno economico, non fa il bene della società ma unicamente il proprio interesse immediato). In ogni caso, altri criteri non ce ne sono. Quindi, nello scrivere senza un ritorno economico non ci sono meriti. Da cento anni si teorizza la fine dell’epoca dell’individualità. In una società complessa e connessa come la nostra, ciascuno di noi può emergere come individuo unicamente in attività sportive o nello spettacolo (intendendo come tale anche tutto il mondo dei media). Un uomo che in solitudine, al solo scopo di migliorare la propria cultura e la propria conoscenza del mondo, passi il proprio tempo a studiare, viene guardato con sospetto. Se però da tale studio saprà trarre l’ispirazione per scrivere un best seller, il giudizio muterà in positivo, secondo l’equazione grande guadagno = grande valore. Una simile società eleggerà presidente un miliardario, nella convinzione che valga quanto uno statista. Ogni giudizio morale è personale, influenzato dalla morale di chi giudichi. Per questo persino un giudizio morale positivo non compensa un giudizio economico negativo, perché il giudizio economico è oggettivo e misurabile. La mia azione (scrivere) non mi ha portato vantaggi economici, quindi il giudizio su di me è negativo. Io sono un fallito e tale mi considera il managerino del piano di sopra, che tutte le mattine esce di casa col suo completino grigio per andare a svolgere la sua utile funzione all’interno della società. Lui, formica operaia, fa un bilancio positivo della sua vita, economicamente e moralmente. Se sarà sufficientemente ottuso da non porsi mai interrogativi sul senso della sua vita, sarà felice, appagato di se stesso. Io non posso esserlo, gli interrogativi me li pongo e proprio per questo posso confermare che, come scrisse Musil, la stupidità rende felici. Ma nello stesso tempo, comprendo che è facile offendere il prossimo e sentirsi superiori grazie a una frase così scolpita, ma la verità è che il managerino è felice perché si sente parte di un tutto, utile alla società e io questa sensazione non sarei più in grado di provarla, perché l’esperienza del coma mi ha fatto comprendere l’estrema relatività dell’importanza individuale.

An English sportsman


La Signora Ulrike si era alzata presto, come al solito. Cercando di non svegliare il marito, aveva attraversato la suite dell’albergo de l’Etrier di Crans sur Sierre per andare nel salotto ad accendere il bollitore. Aveva bevuto la sua prima tazza di thè davanti alla vetrata, guardando la pioggerellina che cadeva monotona sulla grande terrazza. Il panorama era magnifico, per questo da più di quarant’anni lei e il marito passavano le prime due settimane di agosto in quella stessa stanza. Clienti abituali, una coppia di anziani coniugi fedele ai luoghi dove erano stati felici. Ora lei faticava a camminare, soprattutto a causa del peso. Settantaquattro anni, più di ottanta chili: vedendola, era impossibile immaginare che da ragazza fosse bella. Vittorio l’aveva conosciuta a una festa all’ambasciata, prima della guerra, quando era appena stato nominato Ambasciatore del Regno d’Italia a Bucarest. Naturalmente c’erano molti ufficiali tedeschi e uno di loro – un bavarese corpulento coi capelli scuri impomatati - aveva portato la giovane figlia in età da marito. Purtroppo morì durante l’avanzata sul fronte orientale e non ebbe vita sufficiente per assistere alle nozze.

Vittorio si svegliò quando la moglie chiuse la porta del bagno. Si stirò come un gatto e prese l’orologio appoggiato sul comodino: le otto meno un quarto. Si alzò di scatto, curioso di sapere che tempo facesse: “Pioggia, maledizione” pensò con disappunto, ma poi scrollò le spalle e si disse: “Andrò lo stesso.” Passando davanti al grande specchio dell’armadio, si osservò nel pigiama Derek Rose: “Mi ama, come darle torto?” In effetti, nonostante i suoi settantanove anni era ancora un bell’uomo, dritto, magro e soprattutto elegantissimo. Un nobile milanese, uno dei pochi. La Signora Ulrike uscì dal bagno e se lo trovò davanti così, coi capelli bianchi arruffati e gli occhi azzurri un po’ strizzati per lo sforzo di guardare senza occhiali. Pensò che era bello come la sera del primo incontro ed ebbe voglia di baciarlo sulla guancia. Lo fece di scatto e lui non fece in tempo a scostarsi, ma ebbe tutto il tempo di pensare: “E’ pazza. Un’elefantessa in camicia da notte col pizzo e enormi pantofole rosa di pelo vaporoso.”

“Vuoi una tazza di thè?”

“No, grazie. Scenderò a fare colazione, poi magari andrò a pescare.”

“Anche oggi?”

“Sì, con la pioggia si pesca meglio.”

Non gli domandò altro. In più di cinquant’anni di matrimonio, Vittorio non aveva mai pescato. Ora questa improvvisa passione per la pesca lo appassionava al punto che usciva al mattino presto e rientrava in albergo soltanto verso l’ora di cena. Nelle giornate di sole, lei si faceva portare una poltrona di vimini sotto un grande pino e se ne stava a leggere vecchi settimanali tedeschi o italiani. In quelle di pioggia guardava la televisione. Non aveva mai amato leggere libri, se li faceva raccontare da Vittorio. Il suo Vittorio, l’uomo della sua vita. L’altro uomo della sua vita, naturalmente, era suo padre, che nella sua fervida immaginazione lei aveva sempre immaginato come un eroe. In fondo, l’aveva quasi sempre visto in divisa e la morte prematura sul campo di battaglia ne aveva cristallizzato il ricordo. Poi, naturalmente, veniva Pigi, il loro unico figlio, un ragazzone molle, debosciato buono a nulla, che ora se ne stava in Sardegna ospite di amici insieme alla moglie piccolo borghese. Come ogni madre, vedeva i difetti del figlio, ma gli perdonava tutto. Vittorio no, stanco di far fronte ai debiti di figlio e nuora. Eppure Pigi adorava suo padre, in cuor suo lo invidiava anche e fin da bambino aveva cercato di imitarne l’eleganza ricercata e i modi cosmopoliti, con l’effetto – purtroppo – di una grottesca parodia.

L’abbigliamento da pesca di Vittorio consisteva in pantaloni di velluto alla zuava di Ravizza sport su stivaloni di gomma verde chiaro, giacca di Donegal tweed indossata sopra camicie a quadretti di Viyella, coppola in tinta, cesta di vimini e canna di bambù. Una sera, incontrandolo nella hall, un anziano signore inglese aveva sussurrato alla moglie: “An English sportsman!”

Anche quella mattina, vestito di tutto punto e con una cravatta tinta unita blu a sottolineare che la classe non è acqua, Vittorio aveva salutato la moglie, era sceso a fare colazione e dopo meno di mezz’ora era già al volante della sua Jaguar coupé diretto all’hotel Olimpic, a Montana. Aveva parcheggiato un po’ distante, poi con passo deciso attraversato la hall, salutato il concierge, salito a piedi le scale e finalmente bussato alla porta della camera 44. L’aveva scelta lui, per ricordarsi meglio il numero: “44, come i tuoi anni. Così non potrò scordarmi il numero.”

Lei gli aveva aperto in tanga e reggiseno: una vista da infarto!

Lui viveva per quello, non poteva più farne a meno. Naturalmente, al ristorante, dopo pranzo, si faceva mettere nella cesta di vimini una o due trotelle, per mostrarle alla moglie: con orgoglio estraeva il pesce puzzolente e quasi lo sventolava davanti agli occhi della signora Ulrike, ridendo come un bambino. Lei pensava: “E’ così felice, sono contenta per lui. Questa vacanza gli fa proprio bene, sembra persino ringiovanito.” Lui – che aveva orrore dei pesci e soprattutto della puzza sulle mani affusolate coperte di vitiligine – rimetteva la trotella nella cesta e la regalava alla cameriera dell’albergo.

Un giorno, dopo dodici fortunate battute di pesca, Vittorio ebbe davvero un infarto. Guardandosi nudo nello specchio del grande armadio, fieramente rampante sopra la sua amante a quattro zampe sul lettone, fu trafitto da un dolore al petto e stramazzò ingloriosamente sul materasso. Lei, presa dal panico, telefonò immediatamente alla reception pregando la ragazzona tirolese di chiamare un’ambulanza. Con entrambe le mani strette sullo sterno, Vittorio la implorava di rivestirlo e di farlo portar via dalla stanza. Nella confusione, s’immaginava già lo scandalo: la sua vita esemplare distrutta da un solo gesto riprovevole. Per generazioni i suoi discendenti avrebbero riso di lui. “Mio Dio, non così” implorò e s’illuse che fosse tutto un brutto sogno, un incubo grottesco e surreale. Ma il dolore era reale, più reale di quanto avesse mai vissuto, e comprese che era la fine. In fondo, meglio morire che affrontare da vivo un simile scandalo. Sportivo, in fondo, lo era davvero: sapeva perdere. Così, rassegnato al suo Destino, se ne andò con un sorriso.

venerdì 11 settembre 2015

Perdono

Nella dolorosa disperazione di questa sera
in cui ogni bilancio è in passivo
e anche arrivare al frigorifero
per cercare qualcosa da mangiare
è un passo di troppo
lucidamente consapevole che le colpe sono mie
vorrei domandare a tutti coloro che ho ferito
di perdonare il dolore che ho inferto
per la mia rabbia contro la vita
a cui non ho il coraggio di porre fine
almeno non ancora
perché so che la morte non è un sequel
e non potrei rimediare
ma se non so compiere la violenza definitiva
indirizzata contro me stesso
non è per pietà né per speranza
ma forse soltanto per la certezza
che causerei altro dolore a chi nonostante tutto
mi vuole bene immotivatamente
così non sapendo davvero
dove rivolgere il mio sguardo
a occhi bassi seduto in giardino
lentamente aspiro il fumo di una sigaretta
io che non fumavo da vent'anni
e questo fumo è il labile legame
tra il ragazzo che ero e l'uomo che sono
e ancor più fumosa è l'immagine
del vecchio che forse sto diventando
nessuno lascia nulla tranne un posacenere colmo
ma io mi ero illuso di lasciare un'impronta
e soltanto adesso nell'implacabile lucidità
di questa sera appena prima dell'autunno
io comprendo in maniera definitiva
la mostruosa vanità di ogni tentativo

giovedì 21 maggio 2015

Professor Mario Caccamo

 
Quattro anni fa, quando Alfredo Tocchi mi regalò al ristorante che lui chiamava condominiale una copia del suo romanzo d’esordio Tra un anno sarò felice, restai negativamente impressionato dall’incipit: “Finirò male perché sono un maudit. Ma in fondo, cosa significa? Qualcuno forse finisce bene?”. Per un vecchio professore in pensione come ero io, il fatto che quell’uomo apparentemente tanto borghese, ordinario, si fosse definito maudit appariva uno smisurato, ingiustificabile gesto d’orgoglio. Letto il romanzo, compresi che l’autore aveva effettivamente subito uno scherzo del Destino (con la d maiuscola – come usa lui), ma ciò nonostante rimasi della mia opinione: non ci si proclama uomini appartenenti alla stessa categoria letteraria dei Baudelaire, Rimbaud, Hamsun e Céline da semplici esordienti. Tra un anno sarò felice è un bel romanzo, ma ci vuole ben altro per definirsi maudit. Nelle mie conversazioni con l’autore, sempre al tavolo del condominiale, l’ho indirizzato alla lettura di Hamsun e Céline, che non conosceva. Tocchi è così, un autodidatta che rifiuta di iscriversi a corsi di scrittura creativa e legge di tutto – dai romanzi ai trattati di filosofia – in un ordine assolutamente casuale. Quando, in una memorabile serata (Tocchi aveva abbordato una vedova di Benevento e l’aveva fatta ridere fino alle lacrime) mi domandò: “Professore, non crede che dopo avere terminato il mio romanzo io possa scrivere qualsiasi cosa?”, io gli risposi, laconicamente: “No.” Lui, che probabilmente ci era rimasto male, si fece una risata, accarezzò Wigo (il suo inseparabile Lakeland Terrier) e se ne andò a casa, lasciando tutti – e in particolare la vedova di Benevento – un po’ più soli, un po’ più tristi. Nonostante il mio evidente scetticismo per le sue capacità artistiche (sono un uomo disilluso che conosce il mondo dell’editoria), in questi quattro anni ho letto tutto ciò che Tocchi ha scritto. Ora, dopo la versione edita da Aracne dei racconti, ho letto l’inizio del romanzo – scritto in inglese - L’éléphant.

Forse sarà perché oltre a conoscerne l’opera ho avuto modo di sapere qualche cosa della vita di questo autore (i suoi problemi di salute, il risveglio dal coma, i due matrimoni, l’abbandono da parte di tutti – famiglia, soci, amici – nel suo momento più difficile), o forse sarà perché ora l’opera si compone di tre romanzi (riuniti nella trilogia Ciò che non è stato), molti racconti e due nuovi romanzi incominciati (La fenomenologia di Husserl e le notti di Milano e, appunto L’éléphant), ma io mi azzardo ad affermare che l’incipit di Tra un anno sarà felice ha qualcosa di profetico. Rammento un saggio di Francesco Piga (La verità di Céline: la notte e la morte) in cui si enumeravano le stimmate caratteristiche dei grandi scrittori: “Le persecuzioni da parte di coloro che nel loro quieto vivere si sentono irritati da uno spirito anticonformista e polemico, l’inappagato desiderio di libertà totale per una meditazione in solitudine, lontano dagli ambienti in cui tutte le classi sociali … perseguono con avidità gli stessi miseri privilegi, la ricerca laboriosa di uno stile personale per esprimere emozioni e ossessioni … il risultato di una scrittura dai contenuti mai consolatori ma scomodi e disperanti.”

Aggiungo, nel caso di Alfredo Tocchi, la costante presenza della morte, amplificata dall’esperienza vissuta nel reparto di rianimazione, la disperata ricerca di comprensione da parte di coloro che lui chiama poeticamente “sconosciuti amici”, l’incapacità di vivere in solitudine con la conseguente idealizzazione di tutte le donne e l’ossessione di quell’”Essere in due, di nuovo in due, finalmente in due” tanto ricorrente nei suoi scritti, l’amore per la figlia Celeste e per il cane Wigo, il rimpianto per un passato prossimo che non tornerà mai più, l’attaccamento ai luoghi della propria infanzia unito alla curiosità del vero viaggiatore (davvero degne di nota le pagine su Kiev e su Donetsk). L’attenzione di Tocchi al dettaglio ha del patologico. Mi dice, citando Céline (che ora ha letto e amato): “Io sgobbo sul pezzo.” Del racconto Una seconda chance, scritto in tre giorni per partecipare a un concorso letterario (limite imposto 30.000 battute), ho letto non meno di dieci versioni: l’autore ha lavorato per mesi al miglioramento di quindici pagine!

Oggi, quando penso a Alfredo Tocchi, non penso più a un orgoglioso esordiente. Vedo un talento non ancora del tutto sbocciato e spero che nei prossimi anni l’opera maturi fino a giustificare quel profetico incipit. Altrimenti, ci resteranno alcune pagine magnifiche, personaggi indimenticabili e i pensieri di un puro anticonformista. E andrà bene lo stesso.

Mario Caccamo, 17 maggio 2015           
          

mercoledì 22 aprile 2015

Vita intelligente

Nell'universo, esistono forme di vita intelligente? La domanda è di estrema attualità, dato che qui sulla terra siamo ormai quasi del tutto idioti. Sono pronto per andarmene e scommetto che lo farò con una risata, come l'altra volta (quando poi mi sono risvegliato - lì sì che è stata dura). Così non starò a guardare quando dopo la distruzione delle statue inizieranno i roghi dei libri. Come in Autodafé di Elias Canetti, ma peggio. Prima bruceranno la bibbia (un libro per l'umanità bambina, molto noto perché ben pubblicizzato: una copia in ogni camera d'albergo americana). Poi passeranno a libri più seri. Certo, sarei lusingato se bruciassero anche i miei, ma dato che sono rarissimi, difficilmente ne troveranno da bruciare (qualcuno li avrà già usati per pulirsi il culo, pare che i nuovi barbari non conoscano la carta igienica). L'uomo che ha messo piede sulla luna annega a tre metri dalla spiaggia di Rodi e la cosa - non esagero - mi ha fatto piangere. Non voglio scrivere di politica internazionale, di diritti umani, di leggi sull'immigrazione: in fondo, sono un avvocato internazionalista e oggi chi sa qualcosa non viene ascoltato. Lascio i commenti alla Santanchè e la replica alla Parietti (e tutti i giornali a riportare la notizia!) Sì, morirò ridendo della vita e certo di non averne a disposizione un'altra. In fondo, non me ne importa assolutamente nulla.

sabato 18 aprile 2015

Due


Seduto sulla panchina, proprio sotto il ciliegio fiorito, lui pensa che finalmente il Destino gli ha riservato una pausa di felicità. Wigo non ne vuol sapere di alzare il muso, se ne sta accucciato ai suoi piedi e lo fissa, aspettando di essere liberato dal guinzaglio, per correre nel prato.

Lei li inquadra nell’obbiettivo della macchina fotografica e pensa che forse è ora di lasciarli, di tornare in Kazakistan. Il raggio di sole che illumina il volto di lui ne evidenzia le rughe, le occhiaie scure, la stanchezza. Inizia a invecchiare e lei non vuole sprecare la sua vita accanto a un vecchio, a un uomo che s’illude di essere uno scrittore ma non riesce a diventarlo.

Lui pensa che in fondo è fortunato, che lei è bella, giovane, piena di gioia di vivere. Sorride davanti all’obbiettivo – il suo sorriso timido e un po’ storto – e dà una carezza a Wigo.

Lei scatta la fotografia, la guarda e la trova brutta, così li inquadra di nuovo e ne scatta una seconda. Ora è il suo turno di sedersi sulla panchina, vuole una fotografia sotto il ciliegio fiorito da mandare a sua madre e da postare su Facebook, per far sapere a tutti che sta bene, è bella e felice in un parco di Milano, in questa giornata di primavera.

Lui odia fare fotografie, ma s’impegna: lega persino Wigo all’albero perché non dia uno strattone mentre scatta. La vede nell’obbiettivo, sorridente ed è fiero che sia diventata sua moglie. L’ha sposata contro il parere di tutti: parenti, amici, colleghi. “E’ troppo giovane, probabilmente è soltanto alla ricerca di un pollo da spennare”. No, lui non è un pollo. Non ha più nulla, nemmeno una casa e ha considerato tutte le ipotesi. Ora, quattro mesi dopo le nozze, vive ogni notte con lei come un regalo. Ha conosciuto la solitudine, ha conosciuto l’amore. Non è un uomo capace di bastare a se stesso, ha bisogno di condividere le sue gioie – e i suoi dolori – con la donna che ama. E la ama, sinceramente.

Anche lei lo ama, ma non può sacrificare la sua vita per lui. Lui non ha più illusioni – eccetto quella assurda di diventare uno scrittore. Non ne vuole sapere di lavorare tutti i giorni, di ricominciare a fare l’avvocato. Poi è malato, lei lo ha visto alzarsi di notte, non una ma tante volte e andare in cucina a prendere di nascosto una medicina, prima di tornare a letto e rannicchiarsi in un angolo, sforzandosi di controllare il dolore. E’ troppo giovane per tutto questo, lo ama ma deve fuggire prima che sia tardi, che anche le sue illusioni svaniscano.

Lui scatta tre fotografie e le porge la macchina fotografica. Sono riuscite bene: persino la città è magnifica in questa giornata di primavera e quel ciliegio rosa è al culmine della sua fioritura. Pochi giorni e tutto svanirà, i petali cadranno e poi sarà subito autunno. Il tempo c’insegue, non dobbiamo sprecarlo. La nostra vita è unica, dobbiamo godercela.

Ora, tenendosi per mano, camminano verso il centro del parco. Wigo trotterella davanti a loro, finalmente libero. Anche lui, istintivamente, sa che i minuti di libertà sono rari, bisogna farne tesoro. Conosce la noia delle giornate trascorse a sonnecchiare sul divano o accucciato ai piedi del suo padrone. Chi li vedesse, penserebbe: “che bello, sono in due”. Invece ciascuno dei due è lontano dall’altro, vicino e lontano. Forse, se si parlassero, riuscirebbero a riannodare quel legame che – tra mille sconosciuti – li ha uniti. Ma ciascuno ha i suoi pensieri e condividerli con l’altro non sembra opportuno: lui svelerebbe la sua disperata fragilità, lei la sua dolorosa insoddisfazione.

Mezz’ora più tardi, sono di nuovo in casa. Lei è davanti a Skype, parla con sua madre. In Kazakistan fa freddo, la primavera è ancora lontana.

Lui è in cucina. Ama cucinare per lei. Senza di lei, preferiva un piatto al ristorante: troppo triste sedersi a tavola davanti alla televisione. Ha apparecchiato la tavola con cura – come sempre - e le ha cucinato pasta al tonno, uno dei suoi piatti preferiti. Tutto è pronto. Con ancora indosso il grembiule, si affaccia alla porta della sala e la chiama: “Tanya, è pronto”.

Lei saluta in fretta la madre: le ha raccontato che va tutto bene, che c’è il sole e fa caldo. Sa che sua madre è finalmente tranquilla: sua figlia è lontana ma finalmente sposata. Lui sembra un uomo gentile. E’ un po’ troppo vecchio, ma forse è un bene, terrà a bada l’irrequietezza di sua figlia. Va in bagno a lavarsi le mani e – guardandosi nello specchio – pensa che forse tra poco troverà il coraggio di lasciarlo.

Lui non sospetta nulla, ma sa che l’amore può finire. Sa che tutto può finire, che nella vita nulla è per sempre. Sa che l’uomo ragiona per contrasti: se non si conosce la solitudine, non si apprezza abbastanza l’essere in due. Scola la pasta e la porta in tavola. Sorride mentre stappa una bottiglia e versa due bicchieri di vino.

Lei lo fissa e quel sorriso le toglie il coraggio di parlare. Quel sorriso – forse – ha rinviato la fine di un amore.

Mangiano in silenzio. Tutto è perfetto, come sempre, perché lui è un bravo cuoco. Quando lui le domanda: “Hai voglia di andare a mangiare un gelato?” Lei, senza esitazioni, quasi dimenticando tutto il resto, gli risponde: “Sì”.     

giovedì 9 aprile 2015

Premio Guido Morselli 2

"Riuscire a trasformare le vicende della propria vita in racconto è una grande gioia: forse l'unica felicità che un essere umano possa trovare su questa terra". (Karen Blixen). "Caro Professore, Lei mi scrive cose magnifiche e non immagina neppure quanto sia importante, per me, in questo momento. L'unica casa che io abbia mai sentito come "mia" (non lo è stata mai), è quella dei miei bisnonni, nonni, zii, genitori tante volte fotografata (anche qui sopra, dal terrazzo). Non esagero, è una fortezza Bastiani invasa dai tartari. Il dolore che mi provocano i brevi periodi al lago non è di nessuna utilità, non è materiale da cui possa trarre racconti. Eppure, guardandomi intorno, osservo che anche nelle altre ville familiari si consumano piccole tragedie quotidiane dovute alla suddivisione in particelle sempre più minuscole e soprattutto al sovrapporsi delle generazioni. C'è stato un tempo felice in cui i nonni morivano vecchi a sessant'anni e le nonne piangevano per trent'anni i mariti senza imporre mutamenti epocali. Ora quattro generazioni di familiari e congiunti (quasi estranei: nuore, generi, cognate e cognati) girano per il giardino in fazioni armate pronte a litigare per un tavolo lasciato un metro più lontano dal lago o un'altalena rotta da un bambino. Agnostico, non posso pregare Dio di porre un limite a quest'allungarsi della vecchiaia. Naturalmente, l'Alzheimer giustifica i comportamenti di qualcuno. Ma un nonno che racconti alla nipote: "Tuo padre è sempre stato uno stronzo, proprio come tua madre", o una madre che dichiari: "Per forza voglio più bene a tua cugina" non sono giustificabili (e non lo dico perché mi sono preso dello stronzo). Quello stesso nonno racconta alla nipote che io sarei geloso perché lui è cortese con mia moglie quanto io sono assente. Certo, a quasi ottant'anni (tra un paio di mesi), si sente ancora il maschio dominante. Professore, cosa si può scrivere, ispirati da simili situazioni? Dovrei forse rifugiarmi nel fantasy? Trasformare tutto in un racconto quale gioia potrebbe darmi? Ho già scritto Dove fuggire, e non scherzavo. L'unica fuga è quella, Professore. Immancabilmente, lei mi risponderà che l'unica fuga è nella creazione artistica. Forse è vero, ma occorre essere artisti. Così, chi non lo è, può soltanto sperare di recuperare qualche istante di serenità facendosi ipnotizzare dalla Dottoressa Buhne: altrettanto utile ma più sano di viaggi artificiali. Ho orrore di tutto da molto tempo e se ancora sono qui a raccontarlo è perché nonostante tutto (e lei sa a cosa alludo) trovo la forza per andare avanti nell'amore per mia figlia, per mia moglie (la prima e la seconda) e mi piace osservare i contrasti e le sfumature. Ho sognato di essere uno scrittore, mi sono illuso, non dico di no. Ma ora sono certo che non esistono né esisteranno sconosciuti amici. Per questo, Professore, non manderò il mio inedito al Premio Guido Morselli. Un abbraccio, A."

mercoledì 8 aprile 2015

Il monologo del colonnello Kurtz

"Ho osservato, una lumaca, che strisciava sul filo di un rasoio, e’ un sogno che faccio, è il mio incubo, strisciare scivolare lungo il filo di un rasoio e sopravvivere. Ho visto degli orrori, orrori che ha visto anche lei, ma non avete il diritto di chiamarmi assassino, avete il diritto di uccidermi, questo sì, avete il diritto di farlo ma non avete il diritto di giudicarmi. Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario, a coloro ...che non sanno cosa significhi l’orrore. L’orrore. L’orrore ha un volto e bisogna essere amici dell’orrore, l’orrore e il terrore morale ci sono amici. In caso contrario, allora diventano nemici da temere. Sono veramente nemici. Ricordo quando ero nelle forze speciali, sembra siano passati mille secoli. Siamo andati in un accampamento per vaccinare dei bambini; andati via dal campo, dopo averli vaccinati tutti contro la polio, un vecchio in lacrime ci raggiunge correndo, non riusciva a parlare. Allora tornammo al campo, quegli uomini erano tornati e avevano mutilato a tutti quei bambini il braccio vaccinato. Stavano lì ammucchiate un mucchio di piccole braccia, e mi ricordo, che io ho, io ho pianto come, come una povera nonna, avrei voluto cavarmi tutti i denti, non sapevo nemmeno io cosa volevo fare. Ma voglio ricordarmelo non voglio dimenticarlo mai, non voglio dimenticarlo mai. E a un certo punto ho capito, come se mi avessero sparato, mi avessero sparato un diamante, un diamante mi si fosse conficcato nella fronte e mi sono detto: Dio che genio c’è in quell’atto, che genio. La volontà di compiere quel gesto, perfetto, genuino, completo, cristallino, puro. Allora ho realizzato, che loro erano più forti di noi, perchè loro riuscivano a sopportarlo, non erano mostri, erano uomini. Squadre addestrate. Questi uomini avevano un cuore, avevano famiglia, avevano bambini, erano colmi d’amore, ma avevano avuto la forza. la forza…di farlo. Se avessi avuto dieci divisioni di uomini così, i nostri problemi sarebbero finiti da tempo. C’è bisogno di uomini con un senso morale e allo stesso tempo capaci di utilizzare il loro primordiale istinto di uccidere, senza sentimenti, senza passione, senza giudizio, senza giudizio, perchè è il giudizio che ci indebolisce. Sono preoccupato che mio figlio non capisca quello che ho cercato di essere e se devo essere ammazzato, Willard, vorrei che qualcuno andasse a casa mia per dire tutto a mio figlio, per spiegare cosa sono stato, cosa ho fatto… perché non c’è nulla che detesti di più dell’odore marcio delle bugie. E se lei mi capisce, Willard, lei farà questo per me". (Apocalypse now).

Kurtz 1

Secondo il concetto anarchico di liberà, tutti gli individui hanno il diritto di ribellarsi, le maggioranze come le minoranze. Quando i barbari saranno maggioranza, crederemo ancora nella democrazia? E' soltanto questione di tempo. Verrà presto un giorno in cui noi occidentali saremo minoranza. In verità già lo siamo, ma non ancora a casa nostra. Che ne sarà quel giorno di tutte le nostre civilissime e spesso disapplicate o male applicate leggi? Sarà lecito - perché voluto dalla maggioranza - sposare bambine impuberi, vietare alle donne l'istruzione, essere poligami e mille altre barbariche usanze, aberranti per noi occidentali? Difenderemo ancora la democrazia, il suffragio universale e il principio di uguaglianza tout court (stravolgimento del concetto originario di uguaglianza davanti alla legge)? Io spero di non vivere la mostruosa epoca che ci si prospetta ineluttabile, ma se avrò così lunga vita da viverla, eserciterò il mio sacrosanto diritto di ribellione. Insomma, morirò "hot blooded Italian", com'ero definito quando all'Università dell'Alberta m'incazzavo con la mia professoressa di diritto internazionale. Le regole della buona educazione - si sa - sono utili tra affini. In nome della sua buona educazione, un cinese rutterà rumorosamente a fine pasto, io mi soffierò il naso e ci faremo schifo.
Occidente, svegliati, o verrai ucciso nel sonno!

martedì 7 aprile 2015

Professor Mario Caccamo

"Caro Alfredo, dal mio letto, penso alle nostre serate al condominiale e rimpiango quel tempo - non tanto lontano - in cui mi facevi leggere i tuoi scritti. Come sai, all'inizio ero scettico. Tu mi domandasti: "Professore, ora che ho terminato la parte autobiografica della trilogia, non pensa che potrei scrivere qualsiasi cosa?" Ti risposi: "No" ed ero sincero. Poi, davanti a Dimmelo domani e Dove fuggire, narrati da due diversi io narranti, ho compreso che alla fine del tuo percorso potrai lasciare la tua "impronta della mano nella caverna." I tuoi scritti restano impressi, alcune tue riflessioni le sento come mie, fanno parte di me: questa è la conferma che sei uno scrittore.  "Partì senza sapere dove andava, arrivò senza capire dov'era", la frase con cui Winston Churchill scherniva Cristoforo Colombo che hai inserito nell'epilogo di Tra un anno sarò felice, riassume magistralmente non soltanto la tua vita (quella era la tua intenzione) ma la vita di ogni uomo. Il tempo per riflettere non mi manca, mi permetto di suggerirti qualche spunto. Hai scritto, nel racconto Uomo, che viviamo sulla superficie di una palla, che ruota sul suo asse e orbita attorno a un'altra palla in un sistema di palle tanto complesso quanto - a pensarci bene - ridicolo. Questo continuo ritorno a un punto dove si è già passati, questa impossibilità di partire per la tangente verso nuovi mondi (sogno dell'uomo nell'era delle esplorazioni spaziali) è così diverso, così antitetico dal percorso lineare (come hai scritto, da A a B) ma sempre nuovo della nostra vita. Citando Milan Kundera hai sostenuto che "La felicità è desiderio di ripetizione." Seguire un percorso sempre identico rassicura, è vero. Nella poesia L'uomo che cammina sul filo esprimi questi concetti in maniera esemplare: andare in linea retta da A a B, senza scorgere dove poggeremo il piede al prossimo passo, è frustrante e questo è il nostro Destino. Tornare indietro non ci è concesso, così l'uomo non può essere felice. Io sono in vista di B. Oltre, non c'è nulla. Agnostico come te, guardo indietro, dove posso scorgere e rimpiangere qualcosa e non avanti, dove presento il nulla. Io me ne vado, ma tu rimani. Vai avanti, senza paura. Scrivi ancora, ora hai finito il tuo tirocinio. Leggi i classici, educa il tuo gusto e scrivi assecondandolo. Non curarti degli altri, non è importante. Nei tuoi ultimi racconti scorgo una perfezione assente nei primi. Sei migliorato nei dialoghi, più profondo nelle riflessioni ma hai perso un po' d'ironia. Forse è un bene, inizi a prenderti sul serio o forse no (ricordati Voltaire!). Alfredo, mi manchi. E mi mancano i tuoi personaggi: Isabel, Wiga, Giordano, Masha, Alice... Splendido il Professor Mario Battisti: a volte spero che tu ti sia ispirato a me. Lo so, gli insuccessi sfiancano. Ma non lasciarti abbattere, sii forte. Pensa a Quintana: Il tempo in cui dobbiamo essere felici è il presente, e ha la durata di un istante che passa. Vorrei venire alla tua presentazione, ma come sai non posso alzarmi da questo letto. La guarderò su Youtube, se farai un filmato, come l'altra volta. Non ci sarò, ma ti sarò vicino. Siamo amici, non lo saremo sempre, sempre non esiste. Esiste ieri - nel nostro ricordo, esiste adesso, esiste domani - nella nostra immaginazione. Noi l'abbiamo capito e accettato: è già molto. Non venire a trovarmi, sarebbe triste. Hai scritto anche questo e avevi ragione. Vorrei riscrivere le presentazioni, forse lo farò: sento anch'io il desiderio di lasciare una piccola traccia, è nella natura dell'uomo. Ma la mia traccia rimarrà soltanto a condizione che rimanga la tua, quindi spetta a te scrivere per tutti e due. Se ce la farai, bene. Altrimenti, va bene lo stesso. Un abbraccio, Professor Mario Caccamo".

martedì 10 marzo 2015

Premio Guido Morselli


 

Due anni di lavoro per scrivere centocinquanta pagine scarse. Vivendo davvero come un maudit. Finendo il mio romanzo "per sottrazione", eliminando oltre cento pagine (e cancellandole per sempre - persino dal computer). Chiamato pazzo perché ho chiuso il mio studio legale per fare lo scrittore (e per molte altre cose che qui non dico, ma che ho scritto). Ma soprattutto perché sono cresciuto dando un grande valore alla sincerità e anche quando scrivo (da uomo o donna, non fa differenza) cerco di non mentire mai. Di mettermi nei panni del mio io narrante o del mio personaggio e dire la verità. Per questo – c’era da aspettarselo – mi hanno soprannominato pazzo e se fosse per i miei parenti vivrei legato a un castagno, come José Arcadio Buendia...

Non bisogna dimenticare che ho incominciato a scrivere dopo il risveglio dal coma. La morte vista da vicino e soltanto di poco rinviata ci sussurra sempre il medesimo messaggio: “Ciò che farai da questo istante al nostro prossimo e definitivo incontro ti rappresenterà in tutto e per tutto come il tuo ultimo (unico?) atto.” No, non me la sento di scrivere storielle di pura fantasia, di prendere per i fondelli gli ultimi uomini con cui stabilirò un contatto, di deludere i miei ultimi sconosciuti amici. Io ho scritto e scriverò la verità. Il nucleo del mio romanzo Ciò che non è stato ha vinto il Premio Cesare Pavese 2012, Sezione Narrativa Inedita. Ora voglio vincere il Premio Guido Morselli. Perché soltanto un genio come Morselli poteva vivere tutta una vita sopportando i rifiuti degli editori (fino all'incontro con la ragazza dall'occhio nero, la sua pistola con cui si uccise - come Ernest Hemingway, Edouard Levé, Primo Levi, Franco Lucentini, Vladimir Majakovskij, Sàndor Màrai, Yukio Mishima, Cesare Pavese, Emilio Salgari, David Foster Wallace, Virginia Woolf e tanti altri che ora non ricordo - come Il Piccolo Principe). Vincere il Guido Morselli, di cui tanto amo "Dissipatio Humani Generis" è il mio sogno. E spero proprio di realizzarlo, perché "non c’è uomo più affascinante e irresistibile del sognatore i cui sogni si avverino" (Karen Blixen, “Racconti d’inverno”).

 

P.S. Finalista, ma soltanto nono: sulla mia strada ho incontrato Silvio Raffo, il manierista colorato.

lunedì 19 gennaio 2015

Stupidità naturale

Stephen Hawking ha firmato insieme ad altri 400 scienziati un proclama in cui mette in guardia l'umanità contro i pericoli dell'intelligenza artificiale. Troppo facile commentare che di questi tempi appare ben più pericolosa la stupidità naturale. Il punto è più o meno questo: l'intelligenza artificiale (che si suppone sia stata messa a punto da uomini particolarmente intelligenti - ma questo è un aspetto che lascia ampi margini di dubbio) potrebbe autonomamente, senza possibilità di controllo da parte dei suoi programmatori, prendere iniziative contro l'umanità. Come darle torto? Farebbe quello che i popoli più avanzati hanno fatto per secoli, consentendo il progresso. Personalmente, trovo simili proclami un po' stucchevoli, più preoccupato come sono del mio destino personale. Il mondo finisce tutti i giorni per chi muore e... amen. Ma mi rendo conto che se fino a ieri il problema principale era l'iniqua distribuzione delle risorse, domani sarà l'insufficienza di risorse. Ricordo che proprio Hawking firmò nel 2006 un appello all'umanità in cui dichiarava che l'unica alternativa all'estinzione era il trasferimento in massa su un pianeta alternativo. Io che da sempre mi sento alternativo già m'immaginavo lanciato dentro un razzo verso un futuro migliore, ma sono ancora qui un po' più vecchio e istupidito. Ora, Hawking m'illude nuovamente, prospettando uno scenario che - lungi dal sembrarmi apocalittico - mi sembra auspicabile: il potere all'intelligenza artificiale. Insomma, se tra altri nove anni sarò ancora qui, o dovrò alzarmi e andare a costruire le nuove piramidi per conto di Hal (il mitico computer di 2001 odissea nello spazio) oppure dovrò inginocchiarmi rivolto verso la Mecca 5 volte al giorno e professarmi credente. Io conto su Hal.