sabato 8 novembre 2014

La racchia

A 52 anni, Giulio si sentiva vecchio. Gli ultimi sei anni erano stati orribili: la malattia, il divorzio, la perdita del lavoro, la crisi economica, sette traslochi, i debiti per la prima volta, le notti disperato nei bordelli ticinesi, i siti per incontri, le ore e ore passate a scrivere, le liti con gli editori. Persino l’essere sempre e comunque un uomo border line, un incompreso - che era la vera essenza della sua natura - gli pesava ora come un macigno. Così, quando inaspettatamente quella donna di 35 anni, che aveva abbordato per un riflesso condizionato, aveva accettato di salire a casa sua, si era sentito come la racchia della festa che finalmente un bel ragazzo invita a ballare. Lui, un amante sicuro di sé, un uomo davanti al quale persino la più bella segretaria si era inginocchiata come Monica Lewinski senza che lui chiedesse niente, si era sentito in dovere - per riconoscenza o forse per un’improvvisa insicurezza - di invertire le parti. Mentre quella donna, più giovane di 17 anni, gemeva al culmine dell’orgasmo, lui capì di essere soltanto una lingua esperta sul fondo del baratro: “No, non ci sarà lieto fine. Un attimo di tenerezza, se proprio sarà generosa un mio attimo di piacere, poi il nulla, tornerò alla mia solitudine.” Dopo l'orgasmo, incurante della sua erezione, lei si rivestì in fretta e si fece accompagnare a casa. Davanti al portone, lo baciò con passione e gli disse: “Domani è il mio compleanno. Anzi, ormai manca meno di mezz’ora”. Sentendosi all’improvviso Cenerentola, Giulio si stupì di sussurrarle: “Vuoi che stiamo insieme fino a mezzanotte?” “No, domani sarà una giornata difficile: viene Della Valle.” Lui annuì, le diede un ultimo bacio e se ne andò guidando piano, pensando a Della Valle. A un uomo di successo si perdona l’età. A un fallito mai. Il giorno dopo, Giulio telefonò alla Tod’s e chiese se la Dottoressa … era in ufficio. “Sì, ma è in riunione.” “Grazie.” Appena riagganciato, scese a comprare un mazzo di rose e decise di portarle personalmente.” Alla reception, consegnò i fiori e si voltò per andarsene, ma la ragazza carina lo chiamò è disse: “No, non può lasciarli qui. Deve portarli alla segretaria della Dottoressa…” Così Giulio, imbarazzato, scambiato forse per un vecchio fattorino, si ritrovò in jeans in ascensore accanto a un giovane manager gay in doppio petto gessato, azzimato e profumatissimo, che non lo degnò di uno sguardo. Finalmente - seconda porta a sinistra, come gli era stato detto - si ritrovò davanti a una segretaria che lo guardò come si guarda un postino e gli fece cenno di lasciare i fiori sulla scrivania. In quel momento, la Dottoressa … uscì dalla sua stanza, lo guardò senza dire una parola, prese i fiori staccando il biglietto e tornò nella sua stanza, fingendo di non averlo mai conosciuto. Giulio non se la prese: “Ben mi sta. Le racchie si scopano di nascosto.” Fece un sorriso alla segretaria e se ne tornò a casa.

lunedì 3 novembre 2014

Philip Roth

Philip Roth
Se Philip Roth si chiamasse Filippo Rossi, abitasse a Busto Arsizio, insegnasse alla Libera Università di Castellanza e scrivesse quello che ha scritto, non troverebbe un editore. Sarebbe soltanto un povero cristo che ha passato buona parte della sua vita ossessionato dalla sua virilità, messa a "dura" (si spera) prova con le sue studentesse. Le nostre vite non interessano a nessuno, le nostre storie, ambientate qui ai confini del mondo occidentale, scritte in una lingua marginale, non valgono la carta per stamparle. Eppure Philip Roth ha tutti pregi ma anche tutti i difetti degli scrittori ebrei americani. Io stesso gli preferisco Paul Auster, più affine alla mia sensibilità. Vi sono pagine dove i personaggi di Roth suonano falsi, stonati. E' un intellettuale raffinato ma mai quanto Milan Kundera o Sandor Marai. Scrivere come lui, che è un gigante, è naturalmente impossibile. Ma imitarlo male da Portovaltravaglia sarebbe davvero patetico. Eppure qui abbiamo un vantaggio rispetto a Roth: siamo al centro della decadenza del mondo occidentale e più vicini ai fermenti dei barbari alle porte. Ma nessuno, proprio nessuno è all'altezza del compito che ci spetterebbe: testimoniare lucidamente dalla frontiera la caduta nell'oblio dell'Europa di Voltaire. Noi italiani siamo portati alla commedia, non alla tragedia, alla leggerezza (nel senso dato da Calvino nelle Lezioni Americane), non alla pesantezza. Questo limite fa sì che la nostra letteratura - su scala mondiale - non esista. Non ci sono margini economici perché gli agenti e gli editori si attrezzino per essere critici competenti. Paga adeguarsi al livello subumano degli spettatori della TV. Se la cultura e la competenza non sono valori, tutti si sentono autorizzati a scrivere. Scrivere, diventare parlamentari, ministri, presidenti del consiglio. Arriva in alto chi riesce a risultare credibile - in una farsa continua - in TV. Chi è serio non può emergere mai. Emergono i ciarlatani. Renzi docet. Inoltre, per uno scrittore scrivere è inutile perché non ci sono lettori. La lettura è un piacere sorpassato che richiede silenzio, tempo e concentrazione. Chi legge in metropolitana non può capire Voltaire, ma neppure alcuni sublimi concetti filosofici di Kundera. I premi letterari sono come le mostre di pittura nei paesi. Quale grande artista è stato riconosciuto tale per la strada? Occorrono un critico, un mercante, molta fortuna e determinazione. Non uno spazio tra i cavalletti in un vicolo affollato da turisti in gita domenicale. Mi sarebbe piaciuto studiare letteratura negli Stati Uniti (come ho studiato legge in Canada), ma l'ho compreso a 48 anni. Ora è tardi, fa parte di ciò che non è stato. Non scrivo più, non commento quasi mai i libri che leggo. Rispetto Silvio Raffo e Andrea Vitali, ma essere giudicato da loro ai Premi Guido Morselli e Piero Chiara non è come essere letto e giudicato da Jonathan Tropper. Ho avuto la fortuna di essere compreso come scrittore da Massimiliano Comparin e mi ha fatto piacere, perché lo stimo come scrittore. Che importa se in molti mi hanno deriso? Chiunque mostri un lavoro individuale si espone alle critiche, è normale. Ho chiuso un romanzo con una frase emblematica: "Non venite a salvarmi, anche voi siete naufraghi." Magari ve ne accorgerete tra un po', ma come canta Caparezza: "Da qui se ne vanno tutti." Me ne andrò anch'io, senza che nessuno senta la mia mancanza tranne me. Perché il coma mi ha dato la rara possibilità di osservare la mia vita da un diverso punto di vista e l'unica perdita che mi fa soffrire non è per ciò che non è stato, ma per ciò che è stato e non sarà mai più.
In tutto questo, cosa fa Mondadori? Pubblica uno scrittore già baciato dal successo, uno che anche quando va a Roma negli studi televisivi (dicendo in diretta che lui non ci va) compare vestito da rocciatore di dubbio gusto, con tanto di bandana. L'ultimo libro di Mauro Corona è spazzatura. L'autore ci propina il solito sermone sulla superiorità dell'uomo della montagna, con la stessa pedanteria con cui Tolstoj, ormai vecchio e sconvolto dalla paura della morte (dopo averne preso coscienza scrivendo La morte di Ivan Il'ic - con un finale giustamente criticato da Emil Cioran per la sua banalità) cerca di convincerci che i servi della gleba sono migliori degli aristocratici. Stantii luoghi comuni, Ma il punto è: qual è il messaggio di questi autori? Dovremmo forse nel 2015 vestirci tutti da montanari o da servi della gleba e fare finta di essere ignoranti, non contaminati dal sapere, dal progresso, dalla tecnica? Dovremmo recuperare stili di vita perduti per sempre, regredendo fino a dove? Forse il pitecantropo era ancor più felice dei montanari e dei servi della gleba. Dovremmo tornare nelle caverne? Lo dico chiaramente, per evitare ogni equivoco: vorrei essere pubblicato da Mondadori. Sarebbe il coronamento del sogno della mia vita. Cosa devo fare? Un terzo episodio ischemico potrebbe rendermi idiota come i nostri acclamati autori di successo?

giovedì 11 settembre 2014

Lettera al mio giudice

"Tutte quelle cose messe insieme, quelle piccole conquiste, quelle speranze di un altro miglioramento, quell'attesa di piaceri superficiali, di piccole gioie, di soddisfazioni banali, ha finito col riempire cinque o sei anni della mia vita." (Georges Simenon, Lettera al mio giudice). Poi, l'improvvisa oscenità della malattia, la perdita di quelle piccole conquiste, la paura che ha di colpo sostituito le speranze, tutto questo ha squarciato il velo dell'illusione, rivelato l'essenza della vita, l'indispensabilità di condividere il dolore, i sentimenti profondi. "Ho cominciato a guardare anche la mia casa e mi sono chiesto perché fosse la mia casa, che cosa mi legasse a quelle stanze, quel giardino, quel cancello ornato da una targa d'ottone su cui c'era il mio nome." E un giorno me ne sono andato, perché tutte quelle cose messe insieme che avevano costituito la mia vita non contavano più nulla, non colmavano, neppure in parte, il vuoto, il freddo che mi aveva lasciato l'esperienza della mia morte, il mio risveglio dal coma. Tutto ciò che pensavo di desiderare era stordirmi tra le braccia di una donna. In quello slancio di vitalità misto a disperazione ho amato non una, molte donne. A volte riamato, altre soltanto compatito, quasi mai capito. Ma in quei momenti il mio letto rappresentava il mondo, e noi eravamo in due. "Due che non si conoscevano, che non avevano nessun interesse in comune: due che il caso aveva riunito per un attimo, frettolosamente." Due che si amavano concedendosi a uno sconosciuto, consolandosi come possono fare due esseri umani stretti uno all'altro. Dandosi "per qualche ora la sensazione dell'infinito", nell'assoluta consapevolezza che nulla è infinito e anche quell'effimera consolazione, quella felicità di un istante sarebbe volata via. Ma "ora eravamo nello stesso letto, pelle a pelle, con le finestre chiuse, e al mondo c'eravamo soltanto noi due." In quegli istanti, ho scoperto che l'amore è l'unica medicina contro l'orrore della disillusione, il vero, unico senso della vita, lo strumento per la prosecuzione della vita stessa.

mercoledì 9 luglio 2014

Qual è il mio sogno?

“Se vuoi uccidere un uomo, privalo del suo sogno più bello.” (Jim Morrison).
Fine maggio, c'è il sole. E' mattina presto, prima delle otto. Faccio il solito giro dell'isolato con Wigo, prima di fermarmi al bar di Giacomo a fare colazione. Incrocio tre ragazzini di circa quattordici anni che vanno verso la scuola. Qual è il loro sogno? Riuscire a baciare la compagna di classe più carina? Comprarsi un motorino? Diventare calciatore? Più avanti, con la sua setter inglese, la mia vicina di casa: 84 anni. Sogna ancora? Magari il paradiso o la reincarnazione? Una coppia di impiegati scende in fretta le scale della metropolitana. Quali sono i loro sogni? Un figlio? Pagare il mutuo? Andare in vacanza in Polinesia? Il mendicante rumeno è già al suo posto, seduto accanto al bar. Sogna il suo paese? Rivedere gli amici? Se ciascuno di noi ha un sogno qual è il mio? "Quando andai a scuola, mi domandarono cosa volessi diventare da grande. Io scrissi: "felice". Mi dissero che non avevo capito il compito ed io dissi loro che non avevano capito la vita." (John Lennon). Il mio sogno è di essere di nuovo felice. E per essere felici, occorre riconoscere i propri “bisogni primari”. Io l’ho pensato - e scritto - tante volte: sento il bisogno di essere in due, di nuovo in due, finalmente in due. Lo so, è un sogno semplice e romantico. Non soffro di sindrome da dipendenza affettiva, attenzione alle analisi affrettate. Mi piace condividere la mia vita con un’altra persona, stabilire quella perfetta intimità che esiste a volte tra uomo e donna e che consente di cenare insieme, passeggiare mangiando un gelato, starsene abbracciati o fare l’amore provandone piacere. Lo so, tutto viene a noia, anche essere in due: i sogni realizzati perdono il loro fascino, così è la vita. Per questo bisogna osservarla con occhi sempre nuovi e continuare a sognare. Non sempre è possibile, non sempre è ragionevole. Da giovani, è facile. Alla mia età, la disillusione paralizza la fantasia. La noia regna sulle nostre vite e la depressione è sempre in agguato. “In questo mondo, siamo stati gettati come un cane senza un osso.” (Jim Morrison).  Per questo ciascuno di noi deve imparare a essere felice. “Ogni uomo dovrebbe guardare dentro di sé per imparare il significato della vita. Non è qualcosa che si scopre: è qualcosa che si deve modellare.” (Antoine de Saint-Exupéry). In questa frase sta il segreto - e non mi sorprende che l’abbia scritta l’uomo più sensibile della letteratura: non è una scoperta, è una costruzione, la costruzione del nostro castello di sabbia. La vita dell’uomo è scritta sulla sabbia, ma non per questo l’uomo deve scriverla diversamente da come la scriverebbe sulla pietra (Jorge Luis Borges, citato a memoria). Uno dei tanti problemi della vita moderna, è la moltiplicazione dei desideri. Le filosofie orientali teorizzano che la felicità coincida con l'assenza di desideri. Non è così: la felicità coincide con il riconoscimento e la soddisfazione dei desideri (bisogni) primari. Tuttavia, nel nostro mondo moderno la società è una macchina infernale che produce continuamente bisogni indotti. Confusi, non siamo più in grado di distinguere cosa possa davvero renderci felici. Se il castello che desideriamo costruire è troppo complesso, se fuorviati dai bisogni indotti desideriamo troppe cose, rischiamo di non essere in grado di costruirlo. Ma se non costruiamo nulla, come possiamo essere soddisfatti della nostra vita? E se i castelli accanto al nostro - non importa che tutti i castelli vengano alla fine distrutti dalle onde, quello non ci dà soddisfazione - sono più complessi, come possiamo essere fieri del nostro, tanto più semplice? L'emulazione è umana. Per i pescatori delle Isole Tuamotu, la felicità un tempo era una capanna, una buona pesca e una famiglia. Per noi? Quanti desideri dobbiamo soddisfare per essere felici? L'uomo moderno è davvero condannato all'infelicità? Allenarsi al minimalismo dei desideri può essere utile?

giovedì 3 luglio 2014

Apocalisse

"La letteratura apocalittica nasce per aiutare a sopportare l'insopportabile” (Paul Beauchamp). Nel vagone affollato della metropolitana un uomo di cinquant’anni con una T shirt con scritto long vehicle mi spinge contro il sedere di una donna grassa. Lei si volta e mi fissa, senza dire nulla. Mi alita in faccia e l’odore di cipolla, appena attutito da quello di caffè, mi toglie il respiro. Scenderei alla prossima, ma sono già in ritardo. Trattengo il fiato e cerco di girarmi. Le poche persone sedute non hanno neppure lo spazio per muovere un piede, se mai ne avessero voglia, ma sono assorte a digitare messaggi sui telefonini. Una ragazza legge, tranquilla, come se si trovasse sulla poltrona del suo salotto. Mani sudate attaccate ai sostegni si sfiorano soltanto, ma i corpi sono incollati uno all’altro. Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra: fino a quando, fino a che punto? Se la nostra vita ha un senso, non può essere che la distruzione della terra. Siamo infestanti. Siamo troppi e ormai è evidente. Ancora due fermate, tre o quattro minuti al massimo. Dovrei essere felice di avere un lavoro: non ci pago tutte le mie spese, ma con molte economie e un po’ di fortuna potrò sopravvivere per due o tre anni. E poi? Poi dovrò ripensare la mia vita, cercarmi una casa in periferia, farmi mezz’ora in più di metropolitana e dimenticarmi cose che un tempo mi sembravano normali come le vacanze, il sabato sera al ristorante, il cinema la domenica. E intanto il telegiornale mi mostrerà le immagini di mille naufragi, morti di poveri in cerca della sopravvivenza. No, non mi abituerò a quell’orrore e non penserò che si sono meritati quel destino. Ormai è chiaro: l’acqua sta per finire e i pesci si dibattono accelerando la loro morte. L’industria non esiste quasi più, il commercio al dettaglio viene sostituito dalla grande distribuzione, gli artigiani scompaiono – nulla più si costruisce a mano o si ripara, tutto si consuma e si getta – i professionisti sono dieci volte più numerosi del necessario e il livello culturale scende a livelli subumani: non ci sarà nessuna ripresa, siamo soltanto all’inizio della caduta. L’Europa che un tempo ha creduto nei valori dell’illuminismo si è venduta ai venditori di fumo, quegli economisti che hanno consentito il ritorno alla moderna schiavitù, eliminando i dazi e gli accordi commerciali in nome della liberalizzazione e non dell’uguaglianza di diritti. Anzi, dimenticando del tutto i diritti umani, consentendo che le multinazionali sfruttassero la manodopera dei paesi poveri – distruggendo le nostre industrie manifatturiere – per offrirci prodotti a basso prezzo ma ad un costo inaccettabile: la distruzione del nostro mondo. Finiamola con le prese in giro: il declino è appena incominciato. Tra poco finiranno le risorse: troppi uomini desiderano le stesse cose – utili o inutili che siano - ma non c’è speranza di accontentare tutti. In questa mostruosa fiera, io in fondo sono stato abbastanza fortunato da non morire annegato nel canale di Sicilia. Ho vissuto, per un po’ di tempo mi sono illuso, e questo è già un grande privilegio. Sono sincero, ora non m’illudo più. Sono agnostico, ma riflettendoci bene penso che se davvero Dio esiste – se noi siamo stati creati a sua immagine e somiglianza – la nostra vita deve pure avere un senso. Stiamo distruggendo la terra, eliminando tutto ciò che ci circonda, animale o vegetale. Dio lo immagino come un bambino che ama giocare con pianeti morti, senza orrendi animaletti. Noi siamo i batteri mandati per uccidere la vita. Crescete, moltiplicatevi e riempite la terra. Scusatemi se tengo per la terra, se pur senza una preghiera a volte spero che l’umanità scompaia, lasciando vivere quel meraviglioso pianeta blu che soltanto i più fortunati di noi hanno visto dalle astronavi. Lucidamente disilluso non verserei una lacrima per la scomparsa dell’umanità, come nel capolavoro di Guido Morselli Dissipatio H. G. Morselli si suicidò subito dopo averlo scritto, con “la ragazza dall’occhio nero” (la sua pistola). Suicidarmi perché, se non credo in Dio? La mia morte sarebbe definitiva, eterna e non avrei una seconda chance. Ma se non voglio suicidarmi, non bisogna credere che vivere convinto di essere un pericolo per la vita sulla terra sia facile. Mi sento in colpa, mi sento impotente, mi sento in balia del Destino. L’unica consolazione è l’amore e pensandoci bene è normale che sia così. L’istinto mi porta verso la conservazione della specie, anche quando io odio la mia specie. Eccetto colei che amo, naturalmente. Discorso contorto o forse no, poco cambia. La realtà è davanti agli occhi di tutti. Su questo vagone della metropolitana stiamo meglio – molto meglio – che sui barconi dei migranti (il paragone, mi rendo conto, è aberrante), ma andiamo tutti insieme verso l’Apocalisse, chi prima, chi dopo.

lunedì 30 giugno 2014

Sinossi Tra un anno sarò felice

Nel 2008, Giulio di Tocco, 46 anni, avvocato internazionalista, socio di un prestigioso studio milanese, si alza la mattina, si veste e mentre sta per uscire dal bagno crolla a terra, fulminato da un'ischemia cerebrale. Capisce ciò che gli sta succedendo (ha già avuto un ictus nove anni prima) e decide di trascinarsi sul suo letto - dalla sua parte del letto che divide con l'adorata moglie Paola - e di morire. Arrivato a fatica ai piedi del letto, entra in coma, certo di essere morto. Il giorno successivo si risveglia in terapia intensiva, insieme ad altri sette moribondi. Il mese successivo viene operato al cuore e resta sette mesi convalescente sopra il divano di casa, mentre la moglie chatta con gli amici palermitani, terrorizzata dall'orrore della situazione. Giulio si riprende, se ne va di casa e inizia una vita diversa da quella che aveva vissuto fino a quel giorno, perché, come scrisse il suo scrittore preferito, Gregor von Rezzori: "Dopo il risveglio dal coma ho perso il mio posto nel mondo". In una casa vuota, prestata da un cliente, Giulio dorme per terra, su un materasso dell'Ikea senza lenzuola, ma legge Gregor von Rezzori e Ludwig Wittgenstein. Da quel materasso, come un naufrago, ricomincia a vivere. Agnostico, crede che l’amore sia l’unica consolazione contro l’orrore del mondo, proprio come Voltaire. Quindi, decide di andare “a cento scopate di distanza” da sua moglie Paola, perché “il pelo asciuga le lacrime”. Un’avventura dopo l’altra, tra siti per incontri e bordelli ticinesi, sorprenderanno il lettore, sempre più coinvolto negli amori – a volte assurdi – del “principe innamorato di una puttana”. Forse Giulio è impazzito, o forse è lucidissimo. In un ottovolante di emozioni, con un’arguzia rara e uno stile cristallino, l’autore ci fa vivere la straordinaria avventura di un protagonista indimenticabile, guadagnandosi il soprannome di “pazzo di raro talento”. Alfredo Tocchi è così, non diverso dal suo alter ego Giulio di Tocco: un uomo profondo e sensibile, che ha scritto in prosa soltanto per quattro anni, dal 2010 al 2014, completando la trilogia Ciò che non è stato, composta dai romanzi Tra un anno sarò felice (rinominato da dEste Edizioni Confessioni di un pazzo di raro talento), Dimmelo domani e Dove fuggire e la raccolta di racconti La principessa del carnevale di Rio. Nel 2012 ha vinto il Premio Cesare Pavese sezione narrativa inedita e nel 2013 è stato finalista ai Premi Guido Morselli e Mondoscrittura. Nel 2014 Confessioni di un pazzo di raro talento (dEste Edizioni) è stato 1° assoluto su Amazon eBook gratuiti, 9° assoluto su Amazon eBook a pagamento e 1° assoluto su Mazy ininterrottamente per più di quattro mesi. Confessioni di un pazzo di raro talento è stato recensito, tra gli altri, da Giovanna Romanelli sulla rivista Le colline di Pavese (aprile 2014), Sabrina Minetti su Mondo Rosa Shokking, Mondoscrittura sul sito omonimo, Cristina Biolcati su Nuove Pagine e David Frati sul sito Mangialibri. Nel giugno 2014 annuncia che non scriverà e non pubblicherà più, in polemica con le case editrici che impongono l'editing ai loro autori e si auto pubblica su Amazon il secondo e il terzo romanzo della trilogia, Dimmelo domani e Dove fuggire. Successivamente si auto pubblica, sempre su Amazon, La principessa del carnevale di Rio e altri racconti. Una fotografia di Alfredo Tocchi insieme al suo cane Wigo compare sul volume Italian portraits (Skira Editore). Il video di presentazione del suo primo romanzo è visibile su Youtube. Ad oggi è stato scaricato da più di 1600 persone. ► 41:34 www.youtube.com/watch?v=ApKkzof2P_s Professor Mario Caccamo

mercoledì 18 giugno 2014

Scarafaggio

Mi sono svegliato presto, alle prime luci dell’alba. Nudo, sono sceso in giardino con Wigo, fino alla darsena. Una leggera brezza mi fa rabbrividire. Mi appoggio al parapetto e guardo il lago. Uno svasso s’immerge e riemerge venti metri più lontano. La sua vita è quella: nutrirsi, riprodursi, morire. Perché la mia dovrebbe essere diversa? E’ tutto semplice, dovrei vivere “…naturalmente come il vento e il giorno” (Fernando Pessoa). Ho un’anima che mi rende diverso? Davvero gli svassi sono tutti uguali? L’anima mi dà il diritto di distruggere tutto prima di andarmene? E’ vero, la vita non è sempre uguale. E’ sempre diversa, unica. Ma c’è un limite e io credo che stia nel non distruggere il mondo. Non mi sono svegliato scarafaggio, mi sono svegliato uomo. Allora perché provo questo ribrezzo per ciò che sono, per ciò che siamo? La religione teorizza la mia somiglianza al Dio creatore. Allora perché io sono un distruttore? Crescete e moltiplicatevi. Senza un limite? Fino a diventare bestiali e infestanti, il peggior nemico per la vita? Oggi non indosserò il mio orrendo travestimento da scarafaggio, abito grigio e scarpe nere. Oggi me ne starò qui, nudo a riflettere su come dovrei vivere. Mentre sei miliardi di scarafaggi continueranno la loro spaventosa opera di distruzione, uno scarafaggio si porrà domande a cui in molti hanno provato a rispondere. Lo so, cinque sensi non mi bastano per capire. E l’anima non so cosa sia. Ma non giustificherò il mio comportamento con qualche idiota precetto religioso, non sarò presuntuoso al punto di credermi simile al Dio creatore. Mi sono svegliato presto, alle prime luci dell’alba. Mi sono svegliato uomo. E questa grande bellezza che muore a causa dell’uomo mi fa rimpiangere di non essermi svegliato scarafaggio.

giovedì 12 giugno 2014

Maudit

La mia storia, le nostre storie, non interessano a nessuno. Giuseppe Catozzella si avvia a vincere lo Strega con la sua storia di un'atleta somala. Meglio lui di Francesco Piccolo, naturalmente. Ma c'è da riflettere. Incompresi, derisi, vilipesi, offesi scompariamo come le lucciole e i cervi volanti, tacciati di volgarità per avere rimarcato, da un materasso dell'Ikea senza lenzuola al centro di un appartamento vuoto, prestato da un cliente, la nostra appartenenza a quella borghesia che muore giorno dopo giorno. I borghesi superstiti di solito non sanno leggere e i poveri cristi che i borghesi detestano trovano volgari le nostre ostentazioni di scuole private, titoli universitari, viaggi, frequentazioni, oggetti quotidiani. Forse perché sanno che di noi invidiano scuole private, titoli universitari, viaggi, frequentazioni, oggetti quotidiani. La nostra scomparsa non commuove, non è degna di pubblicazione presso editori importanti. Chissenefrega del lamento del borghese, per un secolo la borghesia è stata la classe sociale più incompresa, derisa, vilipesa, offesa e combattuta. Evviva il proletariato. Io muoio da borghese, rivendicando la mia appartenenza con orgoglio e sputando sul pensiero unico demente e sulla volgarità di chi non è come me e di chi è come me. Quando ho deciso di scrivere - a qualcuno è sfuggito - io avevo già un mio stile maturo e ho scelto ogni incipit con cura maniacale: "Finirò male perché sono un maudit. Ma, in fondo, cosa significa? Qualcuno forse finisce bene?". Io ho perso tutto, avevo già perso tutto quando da quel materasso dell'Ikea ho iniziato a scrivere - di notte - la mia storia. Una storia che non interessa a nessuno, che non fa breccia come quella di una ragazza somala. Meraviglie della globalizzazione, del dolore universale e televisivo. Con cinismo, dovrei narrare storie di orfane etiopi, di infibulate nigeriane e gay russi bastonati da padri severi. Iscrivermi al PD e sparare a zero contro la mia classe sociale, per tornare a farne parte, come un Baricco che dalla sua villa in Sardegna manda una lettera alla Presidentessa della Giuria del Premio Cesare Pavese per annunciarle che non presenzierà alla serata finale per problemi di baby sitter. Io non ho baby sitter, né ville in Sardegna, io sono un maudit. Lathe biòsas (vivi nascosto) è il mio motto. Tanto, a nessuno interessa come vivo o come crepo. E' sorprendente che io non scriva più? Tre romanzi e una raccolta di racconti possono bastare: sarebbe sorprendente se io scrivessi ancora.

La madre dello Scrittore

Ho conosciuto la madre dello Scrittore. Ero in fondo alla sala. La presentazione è stata molto bella. Lo Scrittore è un Uomo. Ha stile. D'Orrico l'ha detto ed è vero. Non credevo, ma ha stile. La madre è venuta verso di me, io ero appoggiato al muro, silenzioso. Però ero uno degli unici due in giacca e cravatta - insieme al gagà sorrentino di Mondadori - e la madre forse ha pensato che fossi qualcuno. Si è tradita: è una donna semplice che giudica le persone da un abito blu e una cravatta. Mi ha stretto la mano, si è presentata e l'ho fatto anch'io. Le ho detto la verità: "Suo figlio è stato bravissimo questa sera". Era orgogliosa, senza titubanze o riserve. Ha annuito. E' lei che lo ha educato, che gli ha trasmesso la passione per i libri, la musica e il teatro. E' fiera di lui, l'ha cresciuto da sola. Mi ha parlato con serietà, mi ha stretto la mano una seconda volta e se n'è andata. L'ho osservata da dietro, uscire dalla sala: abito elegante, calze contenitive. E ho capito che anche suo figlio giudica le persone da un abito blu e una cravatta. Non voglio essere frainteso, è una cosa all'antica e conservatrice, ma fatta in un certo modo mi piace. E' il rispetto dovuto alle persone che si curano, il rispetto tributato da Jean Giono verso L'uomo che piantava gli alberi, il rispetto per chi rispetta la forma, intesa non come vuota esteriorità, ma come manifestazione elementare di educazione. In quell'orgoglio e in quel giudizio basato su qualcosa di così desueto, ho compreso perchè non sarò mai lo Scrittore. Io ho imparato a snobbare sempre tutto e a dubitare di me stesso. Non ho avuto una madre semplice e decisa, ma una ipercritica e snob. La mia autostima, già minata dai disastri paterni, è stata erosa dalla mancanza di fiducia in me di mia madre, dal suo continuo giudicarmi, paragonarmi all'unico suo metro di giudizio: suo padre. E' questo il segreto dei miei improvvisi scatti d'orgoglio, capaci di sorprendere anche me, a quasi 52 anni. Io non sarò mai leggero, nel senso indicato nelle Lezioni americane da Italo Calvino. E' un limite, lo capisco. Ma siamo ciò che siamo stati e capire i perchè non è mai facile. Questa sera un bambino intelligente ora Scrittore dormirà sotto lo stesso tetto di una vecchia madre conformista. Sono due persone educate, per bene. Ma lui è un artista e vuole esserlo davanti al mondo. Per questo sceglie di marcare la sua differenza, la sua unicità con cappelli colorati e giacche arancioni, per dirle: "Mamma, tuo figlio è l'uomo che questi signori in giacca e cravatta leggono e ascoltano." E sua madre è orogogliosa e felice. La mia lo sarebbe soltanto se io somigliassi a suo padre. Ma io non somiglio al nonno e se anche mi vestissi d'oro non sarebbe orgogliosa e felice. Sono un anticonformista vestito da conformista. Non mi vestirei mai di nero come Paulo Coelho. Ho letto Psicologia dell'abbigliamento di Fluegel, e dalle mie scelte traspare soltanto la voglia di semplicità, qualità e cura che è indice di sincerità e rispetto per gli altri. Lo Scrittore è diverso da me, ma ho voluto bene a lui e a sua madre, in questa afosa serata di giugno.

martedì 10 giugno 2014

Metamorfosi

Giovane, intuivo ciò che potevo diventare. Con fatica, lo sono diventato. Adulto, ho perso ciò che ero. Intuivo ciò che volevo diventare. Con fatica, lo sono diventato. Ma tutte le strade conducono a un unico punto, la disillusione. Il vero artista è colui che crede assolutamente in se stesso, poiché egli è se stesso. (Oscar Wilde, De Profundis). Perché lo stile è così importante? E' l'unica cosa che ci resta (Charles Bukowski). Lo stile di uno junker ridotto al mediocre piattume della borghesia, per vendere qualche copia in più. Sbagliare è umano, perseverare diabolico: non pubblicherò più: meglio inedito che mutilato. Si critica persino come mi vesto, dimenticando che la mia fotografia su Italian Portraits è stata commentata in Francia (L'Express) e negli Stati Uniti (Esquire U.S.) e taggata su 31 siti. Me ne andrò per il mondo col mio British warm del 1943, come un ufficiale dell'esercito dei poveri, alla ricerca di ciò che veramente conta. Wiga lavora in un night a Londra. Masha è rimasta tre mesi. Voleva un figlio, io no e questo ha avvelenato il nostro rapporto. Ma io so che ci saranno ancora giornate di sole e saremo in due, di nuovo in due, finalmente in due. Finirò il mio romanzo e smetterò di scrivere. Senza disperazione, con rassegnazione: non dovevo fare "l'errore Monti", chi è elitario non può essere popolare. I maudit non firmano autografi. La bellezza di Rimbaud è un frutto stupendo e avvelenato. Non mangerò alla festa di paese, ospite al tavolo del sindaco. "Vivi nascosto" e forse all'ultima inaspettata metamorfosi vivrai finalmente la leggerezza della farfalla. Durerà un giorno soltanto, ma sarà magnifico. Altrimenti, va bene lo stesso.

sabato 31 maggio 2014

Bottoms up

Sessantamila visitatori in un mese, inviti dai più prestigiosi musei del mondo e ora persino un caso politico. Incontro Luchino Del Lauro da Armani Nobu. Il Maestro mi viene incontro, elegante come al solito, in uno dei suoi pigiami di reps disegni cachemire. Il suo segretario mi raccomanda sottovoce di non farlo stancare, perché è arrivato questa mattina da New York. “Maestro, è un piacere vederla di ritorno a Milano. Ormai vive tra New York e Shanghai.” “Sì, Trovo Milano molto provinciale, imbruttita.” “Eppure due ex sindaci sono tra i suoi più attivi sostenitori, Gabriele Albertini ha persino posato per bottoms up.” “Sì, è vero. Milano è la città della mia infanzia, ma i luoghi della mia maturità artistica sono New York, una città dal fascino classico e intramontabile, e Shanghai, indiscussa capitale del mondo moderno.” “Come le è venuta l’idea di bottoms up?” “Vede, il buco del sedere era l’ultimo tabu. In arte si era visto di tutto, dalla merda d’artista di Piero Manzoni fino ai teschi ornati di diamanti Damien Hirst, ma nessun artista aveva mai celebrato una parte del corpo considerata per secoli sporca e indecente. Io ho semplicemente rimediato.” “E lo ha fatto in maniera finissima e altamente spettacolare, con gigantografie appese al soffitto, a un’altezza di due metri e cinquanta.” “Certo. Volevo ricreare un ambiente caldo e protettivo. Ho lavorato molto sulle luci e sulle pareti. Non volevo che il visitatore uscisse con l’impressione di essere stato a un convegno di proctologia. Poi, certamente, il resto lo fanno i buchi, ciascuno così diverso.” In effetti, la sensazione che si prova è un po’ quella di essere sotto le coperte. E la diversità di ogni buco è davvero sorprendente. “Oggi lei è probabilmente l’artista più conosciuto al mondo. La decisione delle autorità russe di vietare l’installazione della sua mostra a San Pietroburgo è stata oggetto di articoli apparsi sui principali quotidiani mondiali.” “Sì, come al solito i piccoli gerarchi russi hanno dimostrato la loro omofobia, accusando l’arte di essere oscena. In questo caso, poi, ne è seguita una campagna di stampa di una violenza inaudita, in cui non soltanto si derideva la mia opera ma si commentava la mia vita privata.” “Eppure nel mondo occidentale lei è acclamato come una star e in Cina è più conosciuto di Leonardo da Vinci.” Il Maestro sorride, con quell’eleganza naturale e quella modestia che prima ancora della sua opera, ce lo fanno amare. Non risponde, annuisce lentamente. “Maestro, le indiscrezioni sulla sua installazione alla prossima biennale di Venezia sono apparse su tutti i giornali. Può darci qualche dettaglio?” “Sì, volentieri. Ho pensato di compiere un’opera che ripercorra la vita dell’uomo. Di ogni uomo. Il titolo sarà L’odore dell’uomo. Nella prima sala installerò una lunga fila di orinatoi, come quelle dei bagni pubblici. Li farò usare, per ricreare quell’atmosfera – e soprattutto quell’odore – che l’uomo lascia dietro di sé. Per me questa prima sala ha un valore altamente simbolico, sarà una specie di personale madeleine proustiana.” Lo esorto a chiarire: “In che senso, mi scusi?” “I tempi della scuola, i bagni pubblici, i primi rapporti sessuali con i miei amichetti.” “Sublime.” “Lo spero. Nella seconda sala, fotografie di amplessi tappezzeranno i muri e il soffitto. L’esperta di profumi Laura Tonatto sta ricreando l’odore di alcova, un bouquet di sudore, umori, preservativo e sperma. E’ quasi giunta alla perfezione, lo sarà entro l’inaugurazione. La terza sala sarà una camera d’ospedale.” “Il ciclo della vita di ogni uomo. Grandioso.” Il segretario sussurra all’orecchio del Maestro: “E’ ora di riposarsi.” Docile come un bambino, ci stringe la mano e ci dà appuntamento alla Biennale. Al suo passaggio, qualche cliente si alza e accenna un timido applauso. Un uomo d’affari giapponese si alza e s’inchina. Dentro di noi, semplici spettatori della vita e dell’opera di questo straordinario artista, resta la consapevolezza di avere incontrato un genio.

martedì 15 aprile 2014

OSSERVAZIONE FILOSOFICA PRELIMINARE

Ogni comprensione precisa richiede strumenti adeguati. La scienza migliora gli strumenti. Ma il limite sta nei nostri cinque sensi e nella necessità di comunicare i progressi alle generazioni future con un linguaggio adeguato.

mercoledì 9 aprile 2014

SONATA PER UN UOMO ONESTO

Te lo devo, nonno. Ero soltanto un bambino di dieci anni, quando sei morto. Non ho pianto, volevo dimostrare di essere grande. Ricordo i gemiti di mamma, chiusa nella sua stanza, sedata. Il tuo funerale, al monumentale di Milano. Ero il primo dietro al feretro, con un cardigan carta da zucchero e una rosa in mano. Il tuo primo nipote, col tuo stesso nome. Dietro di me i miei cugini, poi il lunghissimo corteo, chiuso dagli stendardi partigiani e del comune di Duno. Sindaco come tuo padre, per vent'anni. Per onorare il suo nome hai asfaltato a tue spese la strada provinciale costruita da lui - a sue spese - all'inizio del '900. Altri tempi. Ora la piazza principale porta il tuo nome e una via quello di tuo padre. Presidente dell'Ospedale di Cittiglio, dal 1960 al 1973, anno della tua morte. La tua morte, nonno a sessant'anni. La tua morte, un mistero, fino a ieri. Poi, leggendo con pazienza, per ore e ore, le tue carte... Tuo padre era un semplice capomastro. Ma era un uomo serio e intelligente: la sua impresa costruì alcuni dei più grandi alberghi fin de siècle. Alla sua morte segue quella di sua moglie, di crepacuore. Restano cinque figli, tu sei il più piccolo. Ti cresce tua sorella, nella casa di Milano, in Via Panizza: un giorno forse ci abiterà mia figlia, nonno, proprio dove tu sei stato bambino. Non hai padre, né madre, ma sei un duro: ingegnere a ventun anni, tra i più giovani del Regno d'Italia e fai perdere la testa alla figlia - bella e colta - di un Professore della Bocconi. Un duro, come te, che perderà la cattedra quando si rifiuterà di aderire al Partito Fascista: di questa pasta sono fatto - e ne sono fiero. La sposi e avrete cinque figli. Lei vivrà più di trentacinque anni nel tuo ricordo, venerandoti come un idolo laico, come l'unico amore della sua vita. Lascerai l'equivalente di quaranta milioni di Euro, alla tua morte: non pochi per un orfano. La tua morte, nonno, un mistero. Aprile 1973. Sei a Ostuni per incontrare un Ministro: a Milano è sindaco Aldo Aniasi - Psi - e non ti fanno più lavorare. Ma c'è di peggio: la corrente andreottiana della DC e persino il Vaticano sono schierati dalla parte di Sindona: Andreotti, in visita ufficiale negli Stati Uniti, ha definito Michele Sindona: "il salvatore della lira". Tu questo non riesci a tollerarlo e di certo - col tuo carattere - non ne fai mistero. Sei stressato da mesi, ti senti male dopo cena, ma nessuno chiama un'ambulanza. Hai già avuto un infarto, ti fanno camminare fino all'ospedale. La nonna non ha dubbi: "Lo hanno ucciso". Chi? Perché? Sei un uomo mite e benvoluto da tutti. Additato come un esempio di signore d'altri tempi, citato da Piero Chiara tra i grandi imprenditori con le ville sulla sponda lombarda del Lago Maggiore. Socio di Felice Rusconi fino all'avvio delle cementerie (tu hai già una fornace e l'Italceramica, non entri nell'affare e te ne pentirai), con lui hai costruito Piazza Diaz, la terrazza Martini (progetto dell'Arch. Luigi Mattioni, ispirato dal Rockefeller Center di New York!), Piazza San Babila e decine di altri importanti immobili milanesi. Hai un altro socio, per tutti gli anni '50 e '60, tuo cognato, l'Ing. Gianni Trotta. Poi Trotta diventa il finanziere di riferimento del Psi: tu sei democristiano ma per te la politica attiva è servizio, non finanza. Le vostre strade si dividono. Gianni Trotta conosce Michele Sindona e lo convince a trasferirsi in Via Turati 29 vicino al suo ufficio. Lo introduce nella Milano bene: Anna Bonomi Bolchini, Franco Marinotti (SNIA Viscosa) e molti altri. Lo porta in Banca Rasini. La tua vita s'intreccia - per via di quel tuo cognato di origini siciliane così intraprendente - con la Storia di questo strano e misterioso paese. La "Banca Rasini Sas di Rasini, Ressi & C." viene fondata all'inizio degli anni cinquanta dai milanesi Carlo Rasini, Gian Angelo Rasini, Enrico Ressi, Giovanni Locatelli, Angela Maria Rivolta e Giuseppe Azzaretto. Il capitale iniziale è di cento milioni di lire. Sin dalle sue origini la banca è un punto di incontro di capitali lombardi (principalmente quelli della nobile famiglia milanese dei Rasini, proprietaria del feudo di Buccinasco) e palermitani (quelli provenienti da Giuseppe Azzaretto, uomo di fiducia di Giulio Andreotti in Sicilia). Nel 1970 Dario Azzaretto, figlio di Giuseppe, diviene socio della banca. Sempre nel 1970, il procuratore della banca Luigi Berlusconi (padre di Silvio Berlusconi) ratifica un'operazione destinata ad avere un peso nella storia della Rasini: la banca acquisisce una quota della Brittener Anstalt, una società legata alla Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d'amministrazione figurano nomi destinati a divenire famosi, come Roberto Calvi, Licio Gelli, Michele Sindona appunto e monsignor Paul Marcinkus: la loggia P2 opera senza ostacoli. Tu sei ricco e onesto, che non sempre è una contraddizione in termini. Prima avverti tuo cognato, ora nei Consigli di Amministrazione che contano, poi ci litighi. Lui di te se ne infischia, ormai viaggia tra l'Italia e gli Stati Uniti - non ancora in Concorde accompagnato dal suo medico personale - come negli ultimi anni. Poi il castello di carta costruito dal costruttore di barchette di carta crolla (Sindona ascoltava i collaboratori facendo flotte di barchette di carta). Nell'ultima intervista, resa pochi giorni prima di bere l'ultimo caffè nel carcere di Voghera, Michele Sindona appare particolarmente arrabbiato con l'Ing. Gianni Trotta. Perchè? Per ventun milioni di dollari dati al Psi tramite Roberto Calvi, già eliminato a Londra sotto il ponte dei Frati Neri. Dice di avere le prove e di essere pronto a mostrarle alla magistratura - a tempo debito. Attacca i socialisti ma difende Giulio Andreotti. Sindona è un uomo estremamente intelligente: sa che è in gioco la sua vita, manda un segnale chiaro: parlerò di tutto ma non degli affari sporchi della DC e del Vaticano - tramite lo IOR e il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Il tempo non ci sarà,le sue rassicurazioni non saranno giudicate sufficienti: troppo grave è il coinvolgimento dello IOR. Morirà avvelenato da un caffè, un uomo guardato a vista da trenta guardie carcerarie... Queste sono le ultime frasi di Sindona, riferite dagli intervistatori in carcere: "Soprattutto ha il dente avvelenato con i socialisti. "Ora mi danno addosso - ha detto - ma Trotta a nome di un gruppo del Psi mi chiese di entrare con il venticinque per cento nell' operazione Finanmbro. Io rifiutai". Sindona ripete di aver dato soldi a tutti i partiti, escluso il Pci, nell'affare Trinacria: il tre per cento dell'operazione". Ma che prove dà di queste affermazioni? "Lui avverte che a tempo debito tirerà fuori tutte le prove. Anche quelle del finanziamento di ventun milioni di dollari che Calvi concesse al Psi. "Glielo avevo detto a Calvi di non fidarsi di Ortolani - dice Sindona - Ortolani è una brava persona e un bravo finanziere, ma ha il pallino dei giornali. Ha tirato dentro Calvi, e Calvi è finito ammazzato". Ha ripetuto più volte che Calvi è stato ammazzato. Di tutte queste faccende promette di tirar fuori le prove, a tempo debito e nelle sedi giuste". Nel 1973, nonno, queste cose le avevi capite. Eri molto intelligente. E qualcuno ti ha chiuso la bocca. Eri a Ostuni con un Ministro democristiano. Ha insistito per pagare il viaggio del tuo feretro fino a Milano ma ti ha fatto camminare fino all'ospedale ed è sbiancato in volto quando la nonna gli ha detto che avrebbe preteso un'autopsia. Nonno, ti hanno ucciso i tuoi compagni di partito. O forse il tuo cuore si è spaccato per il dolore. Il dolore di vedere a che punto si stava riducendo questo paese. Altri immobiliaristi avevano preso il tuo posto. Due nomi: Ligresti, Berlusconi - figlio di quel Luigi Berlusconi procuratore della Banca Rasini - dove hanno tenuto i loro conti Pippo Calò, Bernardo Provenzano e Totò Riina (Wikipedia, voce Banca Rasini) . Tuo cognato Gianni Trotta ha vissuto a Washington il resto della sua vita, da eccentrico miliardario ipocondriaco. Nel 1988, il mio primo incarico di giovane avvocato di ritorno dal Canada fu di riordinare le carte della Fasco AG, nello studio del Professore: la prima delle famose scatole cinesi di Michele Sindona, quasi uno scherzo del destino. Molti anni dopo, la mia carriera verrà spazzata via (e la mia vita rimodellata dall'ischemia cerebrale), per avere denunciato il pagamento di una tangente a un noto banchiere cattolico. Sono stato il liquidatore del patrimonio della famiglia: uno sfacelo durato quasi quarant'anni mi costringe a vivere in una casa in affitto. Ma in quella casa, ho una tua fotografia, nonno. E penso spesso a te e a queste nostre vite così diverse. E tu e la nonna mi mancate, anche se ho cinquantun anni. It' all gone, nonno, ma - a volte - mi piace ricordarmi da dove vengo.

lunedì 31 marzo 2014

La purga

Mi piaci quanto una purga al sapore di fragola: un cucchiaino ogni tanto va bene, con due l'effetto è devastante. Non so mentire, il sesso mi annoia. Quasi tutto mi annoia. Era meglio farsi derubare nei bordelli ticinesi da troie senza cuore, di queste nostre scopate crepuscolari, alla Gozzano. Pensavo di morire, per questo ti ho telefonato. Prima ho cancellato tutte le mail e fatto il bucato: sono un moribondo attento al dettaglio. Poi ho pensato che magari un ultimo tristissimo pompino - più che altro per fare onore al mio genere letterario - potesse confortarmi. Sbagliavo, mi è venuta un'improvvisa voglia di morire casto. Davanti alla TV, ascoltanto la nipote di Eisenhower raccontare che suo nonno ha incontrato gli alieni. La vita, fino all'ultimo istante, vuole convincermi che l'umanità è composta da deficienti...

mercoledì 5 marzo 2014

Il mio epitaffio

Passò naturalmente come il vento e il giorno, portando con sé l'anima che l'aveva reso diverso. (Fernando Pessoa).

domenica 2 marzo 2014

Nichilista, consumista, post punk

Giulio di Tocco è un nichilista, consumista, post punk. Un Ulisse che vaga verso l'unico vero approdo: la morte. Ho scritto 520 pagine, ne ho pubblicate meno di un terzo. Ma in fondo, cosa cambia? Avevo già capito tutto all'inizio del mio viaggio, previsto tutto con una lucidità degna delle mie migliori letture: "Il mio romanzo è stato pubblicato: quattrocentoquaranta copie. Non l’ho trovato in nessuna libreria. Sabato ero alla libreria Feltrinelli con mia figlia e per farle vedere che suo padre era veramente uno scrittore ho chiesto alla signorina al banco delle informazioni di cercare il mio nome a computer. C’era, so what? Eppure ho deciso di farcela, di diventare uno scrittore o di morire nel tentativo, perché è una scelta romantica, una scelta stupida ma nobile, da vero maudit. Vittoria o Morte". Sono stato folgorato dal ritratto di Céline fatto da sua moglie, perchè è anche il mio ritratto: “Era un essere disperato, di un pessimismo totale… C’era in lui un’intensità nella tristezza che tutti sfuggivano. Io sono rimasta.” (Lucette Destouches). Qui con me, però, non è rimasto nessuno, eccetto Wigo. "La morte sembra l'unica cosa veramente coerente. La scrittura stessa è un modo di sconfiggere la morte. Morte e ironia sono le uniche cose che fanno intravedere una speranza di guarigione dalla malattia della vita moderna. Ottenibile solo se l'uomo saprà tornare ad essere un individuo ben distinto dal resto del gregge, capace di scappare da quella piattezza e da quel grigiore dove è stato relegato. (Wikipedia, voce Céline)". Céline è morto il giorno dopo avere finito la sua Trilogia del Nord, di emorragia cerebrale. Non si suicidò per caso, esattamente come Francis Scott Fitzgerald (che già aveva acquistato una pistola): la morte sopraggiunse un attimo prima. Chi si guarda dentro e vede l'abisso, ha bisogno di motivazioni forti per vivere. Gli altri leggano favole, vivano accanto a uomini o donne per abitudine o convenienza, s'illudano che esista un'altra vita, si stordiscano recitando l'Om tibetano o vadano a farsi fottere. Tanto, "Qualcuno forse finisce bene?".

sabato 22 febbraio 2014

Recensione Professoressa Giovanna Romanelli

Riflessioni sul romanzo di Alfredo Tocchi Confessioni di un pazzo di raro talento, Edizioni d’Este, 2014 Ho riletto con interesse, nella versione eBook il romanzo di Alfredo Tocchi, del quale peraltro già conoscevo le capacità narrative, avendo egli partecipato al Premio letterario Cesare Pavese, per la sezione “narrativa inediti”, nella quale ha vinto il primo premio due anni or sono. Le indubbie qualità di fascinazione di questo testo sono confermate dal successo della nuova versione elettronica curata dalla Casa Editrice d’Este di Varese: infatti, Confessioni di un pazzo di raro talento è stato tra i dieci libri più scaricati su Amazon e primo assoluto su Mazy. Ha avuto, inoltre, interessanti recensioni, tra le quali ricordiamo quella della scrittrice e editor Sabrina Minetti su Mondo Rosa Shokking e quella di Luciano Pagano, scrittore e blogger su Amazon. Ma vediamo ora più da vicino quali sono, a nostro avviso, gli aspetti che caratterizzano tale romanzo. Protagonista delle vicende narrate in prima persona è Giulio Di Tocco, un giovane uomo la cui vita è all’improvviso sconvolta dalla malattia che rischia di annientarlo, sottraendogli affetti e consolidate certezze. Scampato il pericolo di vita, Giulio è costretto dalle circostanze ad accettare la nuova realtà ma, per fare ciò, deve prima scendere nei meandri più profondi della propria coscienza, intraprendere un cammino in interiore homine, una discesa agli Inferi, che passa anche attraverso l’alienazione e la ricerca compulsiva del sesso, che maschera altri, più veri desideri. E, infatti, il protagonista, come del resto l’autore, indulge letterariamente sulla figura del Maudit, del Maledetto, di cui però conosce e denuncia i limiti, fin dal principio della narrazione: «Finirò male perché sono un Maledetto. Ma in fondo, cosa significa? Qualcuno forse, finisce bene?» (p. 3). Mutatis mutandis, fatte cioè le dovute differenze, Giulio, come Rimbaud, il Maledetto per antonomasia, attraverso il “deragliamento dei sensi” tenta di arrivare all’ignoto, di “domesticare” la realtà, comunque sempre inafferrabile e mutevole. Questo è, dunque, il tema di fondo della prima parte del romanzo, che introduce e sviluppa nella sua seconda parte il tema del Destino, quello che gli antichi chiamavano Fato (Fatum, ciò che è detto) e che i filosofi stoici identificavano nell’esistenza di un ordine prefissato nell’universo ad opera del Logos. Allora l’interrogativo è quello stesso con il quale termina la seconda parte del romanzo: «Siamo artefici del nostro Destino? Certamente. Ma la vita è un castello di sabbia la cui bellezza dipende dal nostro lavoro e dall’imponderabile forza delle onde» (p. 173). Sono evidenti, in questo passaggio, echi letterari, tra tutti ricorderemo il grande Borges di Frammenti di un Vangelo apocrifo, ove si dice che «Nulla si costruisce sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma abbiamo il dovere di costruire sulla sabbia come se fosse pietra». Dunque Giulio, ma anche Alfredo, sono consapevoli della limitatezza e dell’impotenza, almeno parziale, dell’agire umano, e questo equivale a riconoscersi naufraghi. La figura del naufrago ha così una valenza allegorica, esprime l’impossibilità a superare le difficoltà della condizione umana (come non ricordare a tale proposito Il naufragio del Pequod in Moby Dick?). Il protagonista, tuttavia, a conclusione della narrazione, esprime un sussulto di orgoglio che lo induce ad opporsi ai mali del vivere: «Vagherò come un naufrago che ha perso tutto salvo i propri ricordi» (p. 219). E questo non è dissimile da quello che Cicerone diceva per sé: omnia mea mecum ovverò, in altre parole, nessuno potrà sottrarmi ciò che mi appartiene veramente, i miei pensieri, i miei ricordi, la mia dignità. Queste riflessioni trovano adeguato sviluppo e conclusione nell’epilogo del romanzo, ove ogni speranza nel futuro è subordinata all’imponderabile contro cui l’agire umano spesso si infrange: «Si qua fata sinant! Si compia il Destino» (p. 224). Queste le parole pronunciate dal protagonista, che in qualche modo suggellano e fanno proprio il pensiero di Borges, quando sottolinea che nostro dovere è agire e credere che forse davvero la sabbia su cui affonda la nostra azione possa davvero diventare pietra. Anche sul piano stilistico questo romanzo è molto interessante e degno di nota. La scrittura, seppur sorvegliata, risulta efficace e espressiva, capace di catturare l’attenzione del lettore grazie alla sensazione di naturalezza che riesca a comunicare. Pregevole anche il costante riferimento a testi musicali che connotano in modo incisivo alcuni passaggi cruciali del romanzo. Questi sono, a nostro avviso, gli elementi che caratterizzano le Confessioni di Alfredo Tocchi che, come Svevo, sembra trovare il proprio ubi consistam nella scrittura, quando ci dice: «Io non sono colui che visse, ma colui che scrisse». Giovanna Romanelli Già docente alla Sorbonne, Paris III Presidente della giuria del premio letterario Cesare Pavese

martedì 11 febbraio 2014

Non è più tempo di eroi

Alfredo Tocchi è uno scrittore che inizia a farsi conoscere - con fatica - attraverso i Premi letterari e la presentazione della sua prima pubblicazione su Youtube, oltre 1.500 visualizzazioni. Quattro premi con tre opere diverse: due volte sul podio e due finalista. La sua biografia si trova on line: ampio risalto viene dato al risveglio dal coma. "Mi sono svegliato lettore", dice, ma in poco più di tre anni ha terminato la sua opera, annunciata già all'esordio. Confessioni di un pazzo di raro talento ne è la prima parte. Giulio di Tocco, alter ego dell'autore, non è un eroe. "Volevo creare un personaggio indimenticabile, come Bardamu di Céline, un nichilista post punk". Compito ambizioso, senza dubbio. Con queste premesse, si può meglio comprendere un'opera estrema, che non potrà raccogliere unanimi giudizi positivi perché volutamente provocatoria, esagerata, sfacciatamente ambiziosa. Tre io narranti, basti questo per descriverla. Confessioni si legge in poche ore: lo stile pulito, minimalista e il ritmo sono qualità evidenti dell'autore. Ma la vera sorpresa è che Tocchi riesce a rendere coinvolgente una storia border line, noi lettori proviamo emozioni sincere per le vicissitudini di quest'uomo che si mette a nudo, rendendoci partecipi delle sue azioni e dei suoi pensieri. Mai banale, triste a tratti ma vitale e reattivo, Giulio di Tocco a poco a poco spicca il volo nella nostra mente e lascia la sua impronta. Non è poco suscitare emozioni nei propri lettori, farli ridere e poi piangere a distanza di poche righe. E' l'indizio che Tocchi, forse, ha davvero talento. E' la prova che Tocchi ha compreso che un vero artista è colui che apre un privato canale di comunicazione con chi entri in contatto con la sua opera. Luigi Sonzini, Portovaltravaglia, 10 febbraio 2014

giovedì 6 febbraio 2014

PRESENTAZIONE

Sono amico dell’autore. E non uso a caso o a sproposito la parola amico. Sono amico anche di un altro protagonista di questo libro, il Dottor Giordano (non uso il suo vero nome - naturalmente – e neppure il mio). Sono più giovani di me. Non soltanto anagraficamente. Loro sono come due ragazzini. Oggi si parla tanto della “sindrome di Peter Pan”: nulla di tutto ciò. Entrambi sono professionisti affermati, nel loro campo. Ciò nonostante, ogni serata che scendono al “condominiale” è speciale. La monotonia di un ristorante pieno a mezzogiorno ma frequentato dai soliti habitué la sera è spezzata da questa coppia – una vera strana coppia – di ragazzini cinquantenni. Gli scherzi, le battute, la loro gioia di vivere sono una benedizione, soprattutto per chi – come me – vive da solo e non ha più molte occasioni sociali. Ho letto volentieri le bozze di questo romanzo (come avevo letto quelle delle precedenti pubblicazioni, davvero magnifico il racconto Celeste) e ho cercato di dare il mio modesto contributo. L’ho fatto con piacere, non soltanto perché stimo l’autore – uomo che ha sofferto, migliorandosi con coraggio - ma perché farlo è stata un’occasione per trascorrere molte sere con lui e con il Dottor Giordano. Le risate che ci siamo fatti insieme sono veramente benedette. L’autore ha sopportato con pazienza – come fa sempre – l’esuberanza scherzosa del Dottor Giordano. Ovviamente, la correzione delle bozze si è svolta al “condominiale” e ha via via coinvolto tutti, proprio tutti. Non soltanto il cuoco Pasquale, la Signora Anna e tutto lo staff del bar di Via Corridoni, Bruno e Oscar per primi. Ma anche avventori capitati lì per caso, come – in una serata veramente indimenticabile – una vedova di Benevento che Alfredo si è poi portato a casa. Sì, il mondo di Alfredo è – come scrive lui stesso - orgasmocentrico. Ma non bisogna considerare questo romanzo come uno scritto divertente: è molto di più. Prima di tutto, è uno scritto sull’arte, sulla necessità di lasciare un segno del nostro passaggio. Poi, vi sono seminate qua e là considerazioni che – anche per me che le ho lette e rilette – sono sempre profonde e illuminanti. Perché l’autore è un Suchende, un uomo che cerca, ragionando, di svelare l’essenza delle cose. Alfredo, con il suo inseparabile cane Wigo. Il Dottor Giordano, autore di articoli pubblicati dal più noto quotidiano italiano e soprattutto uomo arguto e colto. Con orgoglio scrivo “i miei amici.” Questo libro è una fiaba, scritta da un poeta decadente, maturato ascoltando musica dei Cure – per lui vera poesia contemporanea. Rubando le parole del Dottore, chiudo questa mia breve presentazione: se c’è una morale in questa fiaba moderna, è che ci sono molte persone sole. Ma, a volte, offrendosi agli altri con coraggio, la solitudine può essere sconfitta e si può godere pienamente la vita. Ricordandoci che, come ripete spesso Alfredo, “se possiamo darci a una sola persona, dobbiamo darci a qualcuno che ci meriti.” Professor Mario Caccamo