sabato 22 febbraio 2014

Recensione Professoressa Giovanna Romanelli

Riflessioni sul romanzo di Alfredo Tocchi Confessioni di un pazzo di raro talento, Edizioni d’Este, 2014 Ho riletto con interesse, nella versione eBook il romanzo di Alfredo Tocchi, del quale peraltro già conoscevo le capacità narrative, avendo egli partecipato al Premio letterario Cesare Pavese, per la sezione “narrativa inediti”, nella quale ha vinto il primo premio due anni or sono. Le indubbie qualità di fascinazione di questo testo sono confermate dal successo della nuova versione elettronica curata dalla Casa Editrice d’Este di Varese: infatti, Confessioni di un pazzo di raro talento è stato tra i dieci libri più scaricati su Amazon e primo assoluto su Mazy. Ha avuto, inoltre, interessanti recensioni, tra le quali ricordiamo quella della scrittrice e editor Sabrina Minetti su Mondo Rosa Shokking e quella di Luciano Pagano, scrittore e blogger su Amazon. Ma vediamo ora più da vicino quali sono, a nostro avviso, gli aspetti che caratterizzano tale romanzo. Protagonista delle vicende narrate in prima persona è Giulio Di Tocco, un giovane uomo la cui vita è all’improvviso sconvolta dalla malattia che rischia di annientarlo, sottraendogli affetti e consolidate certezze. Scampato il pericolo di vita, Giulio è costretto dalle circostanze ad accettare la nuova realtà ma, per fare ciò, deve prima scendere nei meandri più profondi della propria coscienza, intraprendere un cammino in interiore homine, una discesa agli Inferi, che passa anche attraverso l’alienazione e la ricerca compulsiva del sesso, che maschera altri, più veri desideri. E, infatti, il protagonista, come del resto l’autore, indulge letterariamente sulla figura del Maudit, del Maledetto, di cui però conosce e denuncia i limiti, fin dal principio della narrazione: «Finirò male perché sono un Maledetto. Ma in fondo, cosa significa? Qualcuno forse, finisce bene?» (p. 3). Mutatis mutandis, fatte cioè le dovute differenze, Giulio, come Rimbaud, il Maledetto per antonomasia, attraverso il “deragliamento dei sensi” tenta di arrivare all’ignoto, di “domesticare” la realtà, comunque sempre inafferrabile e mutevole. Questo è, dunque, il tema di fondo della prima parte del romanzo, che introduce e sviluppa nella sua seconda parte il tema del Destino, quello che gli antichi chiamavano Fato (Fatum, ciò che è detto) e che i filosofi stoici identificavano nell’esistenza di un ordine prefissato nell’universo ad opera del Logos. Allora l’interrogativo è quello stesso con il quale termina la seconda parte del romanzo: «Siamo artefici del nostro Destino? Certamente. Ma la vita è un castello di sabbia la cui bellezza dipende dal nostro lavoro e dall’imponderabile forza delle onde» (p. 173). Sono evidenti, in questo passaggio, echi letterari, tra tutti ricorderemo il grande Borges di Frammenti di un Vangelo apocrifo, ove si dice che «Nulla si costruisce sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma abbiamo il dovere di costruire sulla sabbia come se fosse pietra». Dunque Giulio, ma anche Alfredo, sono consapevoli della limitatezza e dell’impotenza, almeno parziale, dell’agire umano, e questo equivale a riconoscersi naufraghi. La figura del naufrago ha così una valenza allegorica, esprime l’impossibilità a superare le difficoltà della condizione umana (come non ricordare a tale proposito Il naufragio del Pequod in Moby Dick?). Il protagonista, tuttavia, a conclusione della narrazione, esprime un sussulto di orgoglio che lo induce ad opporsi ai mali del vivere: «Vagherò come un naufrago che ha perso tutto salvo i propri ricordi» (p. 219). E questo non è dissimile da quello che Cicerone diceva per sé: omnia mea mecum ovverò, in altre parole, nessuno potrà sottrarmi ciò che mi appartiene veramente, i miei pensieri, i miei ricordi, la mia dignità. Queste riflessioni trovano adeguato sviluppo e conclusione nell’epilogo del romanzo, ove ogni speranza nel futuro è subordinata all’imponderabile contro cui l’agire umano spesso si infrange: «Si qua fata sinant! Si compia il Destino» (p. 224). Queste le parole pronunciate dal protagonista, che in qualche modo suggellano e fanno proprio il pensiero di Borges, quando sottolinea che nostro dovere è agire e credere che forse davvero la sabbia su cui affonda la nostra azione possa davvero diventare pietra. Anche sul piano stilistico questo romanzo è molto interessante e degno di nota. La scrittura, seppur sorvegliata, risulta efficace e espressiva, capace di catturare l’attenzione del lettore grazie alla sensazione di naturalezza che riesca a comunicare. Pregevole anche il costante riferimento a testi musicali che connotano in modo incisivo alcuni passaggi cruciali del romanzo. Questi sono, a nostro avviso, gli elementi che caratterizzano le Confessioni di Alfredo Tocchi che, come Svevo, sembra trovare il proprio ubi consistam nella scrittura, quando ci dice: «Io non sono colui che visse, ma colui che scrisse». Giovanna Romanelli Già docente alla Sorbonne, Paris III Presidente della giuria del premio letterario Cesare Pavese

martedì 11 febbraio 2014

Non è più tempo di eroi

Alfredo Tocchi è uno scrittore che inizia a farsi conoscere - con fatica - attraverso i Premi letterari e la presentazione della sua prima pubblicazione su Youtube, oltre 1.500 visualizzazioni. Quattro premi con tre opere diverse: due volte sul podio e due finalista. La sua biografia si trova on line: ampio risalto viene dato al risveglio dal coma. "Mi sono svegliato lettore", dice, ma in poco più di tre anni ha terminato la sua opera, annunciata già all'esordio. Confessioni di un pazzo di raro talento ne è la prima parte. Giulio di Tocco, alter ego dell'autore, non è un eroe. "Volevo creare un personaggio indimenticabile, come Bardamu di Céline, un nichilista post punk". Compito ambizioso, senza dubbio. Con queste premesse, si può meglio comprendere un'opera estrema, che non potrà raccogliere unanimi giudizi positivi perché volutamente provocatoria, esagerata, sfacciatamente ambiziosa. Tre io narranti, basti questo per descriverla. Confessioni si legge in poche ore: lo stile pulito, minimalista e il ritmo sono qualità evidenti dell'autore. Ma la vera sorpresa è che Tocchi riesce a rendere coinvolgente una storia border line, noi lettori proviamo emozioni sincere per le vicissitudini di quest'uomo che si mette a nudo, rendendoci partecipi delle sue azioni e dei suoi pensieri. Mai banale, triste a tratti ma vitale e reattivo, Giulio di Tocco a poco a poco spicca il volo nella nostra mente e lascia la sua impronta. Non è poco suscitare emozioni nei propri lettori, farli ridere e poi piangere a distanza di poche righe. E' l'indizio che Tocchi, forse, ha davvero talento. E' la prova che Tocchi ha compreso che un vero artista è colui che apre un privato canale di comunicazione con chi entri in contatto con la sua opera. Luigi Sonzini, Portovaltravaglia, 10 febbraio 2014

giovedì 6 febbraio 2014

PRESENTAZIONE

Sono amico dell’autore. E non uso a caso o a sproposito la parola amico. Sono amico anche di un altro protagonista di questo libro, il Dottor Giordano (non uso il suo vero nome - naturalmente – e neppure il mio). Sono più giovani di me. Non soltanto anagraficamente. Loro sono come due ragazzini. Oggi si parla tanto della “sindrome di Peter Pan”: nulla di tutto ciò. Entrambi sono professionisti affermati, nel loro campo. Ciò nonostante, ogni serata che scendono al “condominiale” è speciale. La monotonia di un ristorante pieno a mezzogiorno ma frequentato dai soliti habitué la sera è spezzata da questa coppia – una vera strana coppia – di ragazzini cinquantenni. Gli scherzi, le battute, la loro gioia di vivere sono una benedizione, soprattutto per chi – come me – vive da solo e non ha più molte occasioni sociali. Ho letto volentieri le bozze di questo romanzo (come avevo letto quelle delle precedenti pubblicazioni, davvero magnifico il racconto Celeste) e ho cercato di dare il mio modesto contributo. L’ho fatto con piacere, non soltanto perché stimo l’autore – uomo che ha sofferto, migliorandosi con coraggio - ma perché farlo è stata un’occasione per trascorrere molte sere con lui e con il Dottor Giordano. Le risate che ci siamo fatti insieme sono veramente benedette. L’autore ha sopportato con pazienza – come fa sempre – l’esuberanza scherzosa del Dottor Giordano. Ovviamente, la correzione delle bozze si è svolta al “condominiale” e ha via via coinvolto tutti, proprio tutti. Non soltanto il cuoco Pasquale, la Signora Anna e tutto lo staff del bar di Via Corridoni, Bruno e Oscar per primi. Ma anche avventori capitati lì per caso, come – in una serata veramente indimenticabile – una vedova di Benevento che Alfredo si è poi portato a casa. Sì, il mondo di Alfredo è – come scrive lui stesso - orgasmocentrico. Ma non bisogna considerare questo romanzo come uno scritto divertente: è molto di più. Prima di tutto, è uno scritto sull’arte, sulla necessità di lasciare un segno del nostro passaggio. Poi, vi sono seminate qua e là considerazioni che – anche per me che le ho lette e rilette – sono sempre profonde e illuminanti. Perché l’autore è un Suchende, un uomo che cerca, ragionando, di svelare l’essenza delle cose. Alfredo, con il suo inseparabile cane Wigo. Il Dottor Giordano, autore di articoli pubblicati dal più noto quotidiano italiano e soprattutto uomo arguto e colto. Con orgoglio scrivo “i miei amici.” Questo libro è una fiaba, scritta da un poeta decadente, maturato ascoltando musica dei Cure – per lui vera poesia contemporanea. Rubando le parole del Dottore, chiudo questa mia breve presentazione: se c’è una morale in questa fiaba moderna, è che ci sono molte persone sole. Ma, a volte, offrendosi agli altri con coraggio, la solitudine può essere sconfitta e si può godere pienamente la vita. Ricordandoci che, come ripete spesso Alfredo, “se possiamo darci a una sola persona, dobbiamo darci a qualcuno che ci meriti.” Professor Mario Caccamo