sabato 8 novembre 2014

La racchia

A 52 anni, Giulio si sentiva vecchio. Gli ultimi sei anni erano stati orribili: la malattia, il divorzio, la perdita del lavoro, la crisi economica, sette traslochi, i debiti per la prima volta, le notti disperato nei bordelli ticinesi, i siti per incontri, le ore e ore passate a scrivere, le liti con gli editori. Persino l’essere sempre e comunque un uomo border line, un incompreso - che era la vera essenza della sua natura - gli pesava ora come un macigno. Così, quando inaspettatamente quella donna di 35 anni, che aveva abbordato per un riflesso condizionato, aveva accettato di salire a casa sua, si era sentito come la racchia della festa che finalmente un bel ragazzo invita a ballare. Lui, un amante sicuro di sé, un uomo davanti al quale persino la più bella segretaria si era inginocchiata come Monica Lewinski senza che lui chiedesse niente, si era sentito in dovere - per riconoscenza o forse per un’improvvisa insicurezza - di invertire le parti. Mentre quella donna, più giovane di 17 anni, gemeva al culmine dell’orgasmo, lui capì di essere soltanto una lingua esperta sul fondo del baratro: “No, non ci sarà lieto fine. Un attimo di tenerezza, se proprio sarà generosa un mio attimo di piacere, poi il nulla, tornerò alla mia solitudine.” Dopo l'orgasmo, incurante della sua erezione, lei si rivestì in fretta e si fece accompagnare a casa. Davanti al portone, lo baciò con passione e gli disse: “Domani è il mio compleanno. Anzi, ormai manca meno di mezz’ora”. Sentendosi all’improvviso Cenerentola, Giulio si stupì di sussurrarle: “Vuoi che stiamo insieme fino a mezzanotte?” “No, domani sarà una giornata difficile: viene Della Valle.” Lui annuì, le diede un ultimo bacio e se ne andò guidando piano, pensando a Della Valle. A un uomo di successo si perdona l’età. A un fallito mai. Il giorno dopo, Giulio telefonò alla Tod’s e chiese se la Dottoressa … era in ufficio. “Sì, ma è in riunione.” “Grazie.” Appena riagganciato, scese a comprare un mazzo di rose e decise di portarle personalmente.” Alla reception, consegnò i fiori e si voltò per andarsene, ma la ragazza carina lo chiamò è disse: “No, non può lasciarli qui. Deve portarli alla segretaria della Dottoressa…” Così Giulio, imbarazzato, scambiato forse per un vecchio fattorino, si ritrovò in jeans in ascensore accanto a un giovane manager gay in doppio petto gessato, azzimato e profumatissimo, che non lo degnò di uno sguardo. Finalmente - seconda porta a sinistra, come gli era stato detto - si ritrovò davanti a una segretaria che lo guardò come si guarda un postino e gli fece cenno di lasciare i fiori sulla scrivania. In quel momento, la Dottoressa … uscì dalla sua stanza, lo guardò senza dire una parola, prese i fiori staccando il biglietto e tornò nella sua stanza, fingendo di non averlo mai conosciuto. Giulio non se la prese: “Ben mi sta. Le racchie si scopano di nascosto.” Fece un sorriso alla segretaria e se ne tornò a casa.

lunedì 3 novembre 2014

Philip Roth

Philip Roth
Se Philip Roth si chiamasse Filippo Rossi, abitasse a Busto Arsizio, insegnasse alla Libera Università di Castellanza e scrivesse quello che ha scritto, non troverebbe un editore. Sarebbe soltanto un povero cristo che ha passato buona parte della sua vita ossessionato dalla sua virilità, messa a "dura" (si spera) prova con le sue studentesse. Le nostre vite non interessano a nessuno, le nostre storie, ambientate qui ai confini del mondo occidentale, scritte in una lingua marginale, non valgono la carta per stamparle. Eppure Philip Roth ha tutti pregi ma anche tutti i difetti degli scrittori ebrei americani. Io stesso gli preferisco Paul Auster, più affine alla mia sensibilità. Vi sono pagine dove i personaggi di Roth suonano falsi, stonati. E' un intellettuale raffinato ma mai quanto Milan Kundera o Sandor Marai. Scrivere come lui, che è un gigante, è naturalmente impossibile. Ma imitarlo male da Portovaltravaglia sarebbe davvero patetico. Eppure qui abbiamo un vantaggio rispetto a Roth: siamo al centro della decadenza del mondo occidentale e più vicini ai fermenti dei barbari alle porte. Ma nessuno, proprio nessuno è all'altezza del compito che ci spetterebbe: testimoniare lucidamente dalla frontiera la caduta nell'oblio dell'Europa di Voltaire. Noi italiani siamo portati alla commedia, non alla tragedia, alla leggerezza (nel senso dato da Calvino nelle Lezioni Americane), non alla pesantezza. Questo limite fa sì che la nostra letteratura - su scala mondiale - non esista. Non ci sono margini economici perché gli agenti e gli editori si attrezzino per essere critici competenti. Paga adeguarsi al livello subumano degli spettatori della TV. Se la cultura e la competenza non sono valori, tutti si sentono autorizzati a scrivere. Scrivere, diventare parlamentari, ministri, presidenti del consiglio. Arriva in alto chi riesce a risultare credibile - in una farsa continua - in TV. Chi è serio non può emergere mai. Emergono i ciarlatani. Renzi docet. Inoltre, per uno scrittore scrivere è inutile perché non ci sono lettori. La lettura è un piacere sorpassato che richiede silenzio, tempo e concentrazione. Chi legge in metropolitana non può capire Voltaire, ma neppure alcuni sublimi concetti filosofici di Kundera. I premi letterari sono come le mostre di pittura nei paesi. Quale grande artista è stato riconosciuto tale per la strada? Occorrono un critico, un mercante, molta fortuna e determinazione. Non uno spazio tra i cavalletti in un vicolo affollato da turisti in gita domenicale. Mi sarebbe piaciuto studiare letteratura negli Stati Uniti (come ho studiato legge in Canada), ma l'ho compreso a 48 anni. Ora è tardi, fa parte di ciò che non è stato. Non scrivo più, non commento quasi mai i libri che leggo. Rispetto Silvio Raffo e Andrea Vitali, ma essere giudicato da loro ai Premi Guido Morselli e Piero Chiara non è come essere letto e giudicato da Jonathan Tropper. Ho avuto la fortuna di essere compreso come scrittore da Massimiliano Comparin e mi ha fatto piacere, perché lo stimo come scrittore. Che importa se in molti mi hanno deriso? Chiunque mostri un lavoro individuale si espone alle critiche, è normale. Ho chiuso un romanzo con una frase emblematica: "Non venite a salvarmi, anche voi siete naufraghi." Magari ve ne accorgerete tra un po', ma come canta Caparezza: "Da qui se ne vanno tutti." Me ne andrò anch'io, senza che nessuno senta la mia mancanza tranne me. Perché il coma mi ha dato la rara possibilità di osservare la mia vita da un diverso punto di vista e l'unica perdita che mi fa soffrire non è per ciò che non è stato, ma per ciò che è stato e non sarà mai più.
In tutto questo, cosa fa Mondadori? Pubblica uno scrittore già baciato dal successo, uno che anche quando va a Roma negli studi televisivi (dicendo in diretta che lui non ci va) compare vestito da rocciatore di dubbio gusto, con tanto di bandana. L'ultimo libro di Mauro Corona è spazzatura. L'autore ci propina il solito sermone sulla superiorità dell'uomo della montagna, con la stessa pedanteria con cui Tolstoj, ormai vecchio e sconvolto dalla paura della morte (dopo averne preso coscienza scrivendo La morte di Ivan Il'ic - con un finale giustamente criticato da Emil Cioran per la sua banalità) cerca di convincerci che i servi della gleba sono migliori degli aristocratici. Stantii luoghi comuni, Ma il punto è: qual è il messaggio di questi autori? Dovremmo forse nel 2015 vestirci tutti da montanari o da servi della gleba e fare finta di essere ignoranti, non contaminati dal sapere, dal progresso, dalla tecnica? Dovremmo recuperare stili di vita perduti per sempre, regredendo fino a dove? Forse il pitecantropo era ancor più felice dei montanari e dei servi della gleba. Dovremmo tornare nelle caverne? Lo dico chiaramente, per evitare ogni equivoco: vorrei essere pubblicato da Mondadori. Sarebbe il coronamento del sogno della mia vita. Cosa devo fare? Un terzo episodio ischemico potrebbe rendermi idiota come i nostri acclamati autori di successo?