Alfredo Tocchi - Discorso
alla consegna del Premio Cesare Pavese 2012 – Sezione Narrativa Inedita
In
Italia, tutti scrivono: esiste la scuola dell’obbligo. Tutto è stato già scritto,
ma nessuno più legge: perché io voglio scrivere? Forse perché potrebbe darmi
piacere: “Accorgersi
che si era capaci di inventare qualcosa; di creare con abbastanza verità da
esser contenti di leggere ciò che si era creato; e di farlo ogni giorno che si
lavorava, era qualcosa che procurava una gioia maggiore di quante ne avessi mai
conosciute. Oltre a questo, nulla importava.” (Ernest Hemingway). O forse perché, come scrisse Elias
Canetti, lo scrittore aspira a una modalità di sopravvivenza, di trasmissione
della vita, che è esattamente all’opposto di quella incarnata dal potente
paranoico. Nella letteratura, come del resto in ogni altra forma d’arte, si
concretizza il sogno di arrivare a una seppure relativa immortalità in modo
pulito. Non si cerca di sopravvivere mortificando il prossimo: l’artista
trasmette al prossimo le sue forze vitali in modo del tutto positivo. Chi legge
un romanzo, ascolta un brano musicale o osserva un dipinto ritrova la
personalità dell’autore. Il capolavoro è l’opera capace di trasmettere le
sensazioni di un uomo vissuto magari in un’altra epoca a un lettore,
ascoltatore o osservatore lontano nello spazio e nel tempo. Un uomo dotato di
volontà di potenza, ma in senso buono. Soprattutto, un uomo unico, come tutti
gli altri – l’unicità è il vero sottovalutato miracolo della vita - ma a
differenza degli altri capace di lasciare una seppur piccola traccia del
proprio passaggio, della propria originalità: per questo l’originalità è il
vero, unico, tratto distintivo dell’opera d’arte contemporanea.
Da cosa nasce la necessità di scrivere? Paul
Auster, un autore che amo per la sensibilità così simile alla mia, ha dato la
risposta che preferisco: Dal dolore, la scrittura. Quando non si è più in sintonia con chi ci sta
accanto, si cercano sconosciuti amici: i lettori. “Lo scrivere è proprio questa contraddizione che dal fallimento di una
comunicazione crea una comunicazione ulteriore, che è parola per gli altri, ma
parola senza l’altro.” (Roland Barthes, Miti
d’oggi).
Voi mi avete letto, tra di noi si è stabilita una
comunicazione e io vi ringrazio, dal profondo del mio cuore. La
discreta eleganza del Professor Gatti s’intona con la sua cultura d’altri
tempi. L’esuberante bellezza della Professoressa Romanelli non stona affatto
con la serietà con cui svolge il suo compito di Presidentessa della giuria.
Eravate due sconosciuti amici, ora che vi vedo in carne e ossa provo il
desiderio di abbracciarvi.
Se qualcuno mi avesse domandato: “Come stai?”, gli
avrei risposto che mi mancava Giordano.
Ma Giordano non esiste e nessuno – eccetto a volte
il nostro medico – ci domanda come stiamo, per sentire veramente la risposta.
Per quasi tre anni ho vissuto in un mondo
inesistente. Non tutto il mio tempo, certo. Ma comunque il tempo necessario per
scrivere un romanzo. Mi sono moltiplicato per il numero dei miei protagonisti:
ero la dolce Masha e la sua amica Galya. Ero Giordano e Aisha, il Professor
Caccamo, Natalia, la Principessa del carnevale di Rio, il Maestro ed ero
Giulio, naturalmente. Esistono personaggi letterari ben più noti
e più vivi di uomini in carne e ossa che incontriamo tutti i giorni. Pensate a
Don Chisciotte, a Ismaele, a Don Fabrizio Corbera Principe di Salina… Del
resto, la letteratura è l’arte figurativa per eccellenza, perché consente di
ricreare il pensiero astratto, la più alta caratteristica umana.
L’unico essere vivente che ho evocato nel mio libro
che non è svanito è Wigo. Sono rimasto soltanto l’uomo col cane. E infatti Wigo
è qui con noi, tra il pubblico, accucciato ai piedi di mia figlia.
Possono mancarmi i personaggi di un romanzo? Certo,
perché è il mio romanzo. Un romanzo che resterà inedito, perché io non sono uno
scrittore. Eppure, voi lo avete letto e mi avete reso meno solo, felice e fiero
del Premio che mi avete assegnato. Qualche anno fa, mi sono risvegliato dal
coma. Un’ischemia cerebrale ha cambiato per sempre la mia vita, mi ha fatto
perdere le mie piccole sicurezze umane, le conquiste frutto di un duro lavoro. Se
tutto può essere perso così, che valore può avere la vita? Che senso hanno le
nostre conquiste, così effimere, così fragili? La letteratura mi è stata di
aiuto. Leggendo Il vecchio e il mare di Hemingway, ho riflettuto sull’estetica
della lotta. Lottare ci rende uomini, soprattutto quando siamo consapevoli
dell’inutilità della lotta. Io ero ancora un uomo, anzi ero più che mai un
uomo, liberato dai semplicistici pregiudizi sul mondo, la fede, le passioni.
Dovevo trovare una valvola di sfogo: la consapevolezza brucia. Il mio nucleo
era rovente. Così, istintivamente, ho iniziato a scrivere. La scrittura ha una
funzione catartica: quando il dolore è talmente forte da isolarci dal mondo, è
nella scrittura che cerchiamo un rifugio. Perché scrivere ci costringe a
riflettere. E cos’altro possiamo fare se non riflettere e accettare il nostro
Destino di uomini mortali? Dove possiamo fuggire? Inoltre, scrivendo lanciamo
un disperato messaggio nella bottiglia a un’indistinta umanità capace di
comprenderci, di essere al nostro fianco, di condividere la nostra sofferenza:
la compassione è il più nobile dei sentimenti.
Ho
condiviso con voi il frutto della mia sofferenza, della mia esperienza terrena.
Sembra poco, ma per me – che volevo lasciare una seppur piccola traccia del mio
passaggio - è tutto.
E’
davvero bello ritrovarsi qui, in questa casa che fu di Cesare Pavese, a parlare
di letteratura. Avete saputo creare il clima intimo e piacevole di una serata
tra vecchi amici. Sento un brivido lungo la schiena a parlare della solitudine
degli scrittori qui, nella casa dove visse Lui. Per scrivere, occorre essere
soli, lontano da quella che un altro grande scrittore suicida definì la
dolorosa concitazione della vita. La scrittura attua una “sospensione dalla
vita”. Pensate a Marcel Proust e alla sua stanza foderata di sughero… Scrivere
ci costringe a guardarci dentro, il bravo scrittore impara a osservare il mondo
con un interesse e una curiosità particolari, ed è particolarmente importante farlo
oggi, in un momento storico in cui l’umanità sembra essere inebetita,
costantemente alla ricerca di soddisfare bisogni indotti, senza più valori,
senza una vera volontà di cambiamento, sempre con la mente altrove, davanti ai
propri schermi, ignorante, indifferente, impassibile rispetto alla quasi
totalità dei problemi importanti ma anche rispetto alle effettive esperienze
altrui, tanto che uno scrittore del ventesimo secolo descrisse così la vita: “La vita è movimento. Un moto, però,
circolare (intorno a quel piccolo nucleo che si chiama “io”), un moto talmente
circoscritto che assomiglia a un piétiner sur place. Circoscritto dal gran
cerchio d’ombra di tutto quello che sfugge alla nostra cognizione, o di cui non
c’interessa cognizione. E non alludo allo scibile, né tantomeno al “mistero
dell’universo”, alludo a ciò che rappresenta la realtà spicciola, la più vicina
a noi.” (Guido Morselli, Dissipatio
H.G.).
Del
resto, come scrisse Dostoevskij, riflettere troppo sulla vita è già una
malattia e richiede coraggio: “Hopeless emptiness. Now
you’ve said it. Plenty
of people are onto the emptiness, but it takes real guts to see the hopelessness.” (Richard Yates). Tuttavia, senza
questo coraggio non si diventa grandi scrittori, si rimane alla superficie
delle cose, non si è capaci di aprire quelle che proprio Yates definì “finestre
sul mondo”, quelle pagine che misteriosamente ci rivelano qualcosa di realtà
metafisiche inaccessibili ai sensi, perché, come tutti sappiamo “L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Il
ricordo di questi momenti mi accompagnerà per sempre. Il sempre umano,
naturalmente, che ha la durata di un istante che passa. Grazie.
(Il
discorso non venne pronunziato per mancanza di tempo. Il romanzo premiato -
Natale 2010, poi rinominato Dimmelo domani - è rimasto inedito).
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