martedì 29 settembre 2015

La recensione


“Un libro inutile. Fastidioso, autocompiaciuto, sgradevolmente pruriginoso, racconta storie di nessun interesse se non per l'autore. Dulcis in fundo, è pure scritto male.”
Leggo la recensione - una stella su cinque – due volte, poi una terza. E’ identica a quella già fatta a Confessioni di un pazzo di raro talento. L’ha scritta la stessa persona. Perché recensire due volte lo stesso romanzo (seppure pubblicato da due editori con titoli diversi)? Cerco le altre recensioni che ha postato su Amazon: ha elogiato la Mazzagatti, dato cinque stelle al libro della Scipioni, sfregiata con l’acido. Provo a calmarmi, ma quelle parole mi bruciano, soprattutto “è pure scritto male”. Ma c’è una cosa che non so spiegarmi: perché dopo avere recensito Confessioni, ha recensito pure Tra un anno sarò felice? Dove ha trovato la copia cartacea, visto che il libro è stato stampato in duecentosessanta copie subito esaurite tre anni fa? Sono sensibile alle critiche, mi feriscono. Lo so, dovrei infischiarmene: chi legge la Mazzagatti e la Scipioni cosa può capire di letteratura? Eppure vorrei far sparire quella recensione, almeno da Tra un anno sarò felice. La media di Confessioni è quattro virgola quattro su cinque, quindi una recensione negativa mi dà meno fastidio. La media di Tra un anno sarò felice era ancora più alta, ma non è mai stato venduto su Amazon, quindi quella è l’unica recensione e il punteggio resterà per sempre una stella su cinque. Cosa fare? Per prima cosa, provo a comprare la copia cartacea offerta in vendita. E’ l’unica, forse togliendola da Amazon spariranno per sempre Tra un anno sarò felice e la maledetta recensione. Così, senza pensarci oltre, acquisto la copia, spendendo quattordici Euro per riavere il mio libro. Fisso per l’ultima volta la fotografia della signora bionda che ha fatto la recensione: mi ricorda qualcuno, ma non mi viene in mente chi. No, forse mi sbaglio, non la conosco. Troppo vecchia - avrà quasi sessant’anni – non può essere un’amante delusa.
Una settimana più tardi, mi arriva il libro. Strappo l’involucro in portineria, giro la copertina e trovo una dedica: “A Egidio Vacchini, con stima e affetto.” Certo, ho autografato più di cento copie, c’erano buone probabilità che fosse autografato! Egidio Vacchini è un mio cliente. Lo conosco da venticinque anni. Un po’ mi dispiace che si sia venduto il mio libro. Però era suo, l’aveva pagato, aveva il diritto di farne ciò che voleva. Esco con Wigo, libro in mano, e vado a fare colazione. Mimmo, il barista, è un amico. Gli mostro il libro e lui mi domanda: “Posso leggerlo?”
“Certo, ma non te lo posso regalare, perché è l’unica copia che mi è rimasta.”
Torno a casa e non ci penso più. E’ la fine di settembre, Tanya è a Mosca, sono solo. La solitudine ingigantisce i pensieri tristi – almeno è così per me. Sono in attesa della recensione di David Frati su Mangialibri. Ha recensito positivamente Confessioni di un pazzo talento, ora deve recensire La principessa del carnevale di Rio. Entro la fine della settimana avrò la risposta di Zerounoundici: ho inviato Undici al 17 (La fenomenologia di Husserl e le notti di Milano - verrà pubblicato!). Sono nervoso, passo notti intere a editare i miei scritti: riprendo a lavorare sui vecchi file e auto pubblico su Amazon versioni integrali della mia trilogia. Nessuno la legge, è un lavoro faticoso e inutile. La mia attenzione al dettaglio ha aspetti patologici: cambio persino la punteggiatura, aggiungo una citazione, correggo un a capo: perché? Per chi? Eppure, leggendo sul mio Kindle le versioni integrali, sono soddisfatto del mio lavoro: Dimmelo domani e Dove fuggire sono rimasti inediti, ma io sono felice di averli scritti – e non sono indulgente verso i miei scritti.
Ieri mattina, Egidio Vacchini viene in studio. In realtà non ho più il mio studio, dopo otto traslochi ho ricavato uno studio in casa e lì scrivo e lavoro. Ci salutiamo con un abbraccio, venticinque anni sono tanti e le nostre vite sono state sconvolte da tanti avvenimenti. Io gli sono grato che sia rimasto mio cliente e lui mi è riconoscente per averlo aiutato nella sua separazione. E’ venuto per farmi leggere un contratto. Lavoriamo per più di mezz’ora. Terminato il lavoro, mentre lui riordina le carte e le mette nella cartella, io vado su Amazon e apro la pagina delle recensioni della signora bionda. “Egidio, posso domandarti se conosci questa signora?” Giro il computer.
Rimette gli occhiali da presbite, si avvicina allo schermo e mi dice: “Sì, certo.” Mi guarda con aria interrogativa.
“Sai se ha letto il mio libro?” Lo fisso negli occhi. Mi sembra che arrossisca un poco.
“Sì, lo ha letto. Le ho prestato la mia copia.”
“Posso farti leggere la recensione che ha postato?” Non attendo la risposta, vado alla mia pagina e la apro.
Legge in un attimo (sono meno di due righe) e mi racconta una storia incredibile: “Non prendertela, è una donna che ha avuto una vita difficile.”
“E allora, deve stroncare il mio libro per vendicarsi?”
“No, non credo che volesse stroncare il libro. Non dovrei dirtelo, ma le cose sono andate più o meno così…”
Mi racconta che lei è iscritta a Meetic. Una notte, mi ha inviato un messaggio. Io ero on line e le ho risposto subito che non chattavo con signore solari, soprattutto se erano bianche e avevano più di quarant’anni.
Qualche mese più tardi, a casa sua, lei ha visto il mio libro (e la mia fotografia sulla quarta di copertina era la stessa del mio profilo su Meetic). Gli ha chiesto: “Tu conosci questo idiota?”
“Sì, è il mio avvocato.”
Gli ha raccontato la storia di Meetic e si è fatta prestare il libro.
“Bene, salutala da parte mia. Spero che su Meetic abbia trovato l’anima gemella. Io mi sono iscritto a Afrointroductions e non mi è andata male.”

Questa è la storia. La morale è semplice: se scrivete (chi non lo fa, in Italia tutti scrivono, esiste la scuola dell’obbligo!) non trattate male persone sole sui siti per incontri. Potrebbero recensirvi… 

venerdì 18 settembre 2015

Il managerino

Se osserviamo attentamente la realtà, scorgiamo chiaramente che ogni azione viene valutata secondo tre criteri. Il primo, è quello estetico. Inutile dilungarsi in spiegazioni. Il secondo, è quello economico. Se io scrivo un romanzo e non ne ricavo un guadagno, la mia azione (scrivere) viene valutata negativamente. Il terzo criterio, è quello morale. Aiutare una persona in difficoltà viene valutato positivamente, anche se non se ne ricava un guadagno. Il giudizio morale, a livello individuale, ai nostri giorni è in disuso. Anzi, si potrebbe affermare che persino il giudizio morale, oggigiorno si riduca a un giudizio economico: la buona azione viene giudicata di valore se arricchisce economicamente il povero destinatario. Forse sarà perché non si crede più nell’equazione comportamento moralmente positivo = acquisto di crediti per entrare in Paradiso. Oppure perché secondo le teorie liberiste chi persegua un proprio personale vantaggio economico alla fine – senza rendersene magari conto – persegue anche il bene della società (un’eresia a buon mercato spacciata per una verità assoluta da ciarlatani: che uccida gli ultimi tonni del Mediterraneo per trarne un guadagno economico, non fa il bene della società ma unicamente il proprio interesse immediato). In ogni caso, altri criteri non ce ne sono. Quindi, nello scrivere senza un ritorno economico non ci sono meriti. Da cento anni si teorizza la fine dell’epoca dell’individualità. In una società complessa e connessa come la nostra, ciascuno di noi può emergere come individuo unicamente in attività sportive o nello spettacolo (intendendo come tale anche tutto il mondo dei media). Un uomo che in solitudine, al solo scopo di migliorare la propria cultura e la propria conoscenza del mondo, passi il proprio tempo a studiare, viene guardato con sospetto. Se però da tale studio saprà trarre l’ispirazione per scrivere un best seller, il giudizio muterà in positivo, secondo l’equazione grande guadagno = grande valore. Una simile società eleggerà presidente un miliardario, nella convinzione che valga quanto uno statista. Ogni giudizio morale è personale, influenzato dalla morale di chi giudichi. Per questo persino un giudizio morale positivo non compensa un giudizio economico negativo, perché il giudizio economico è oggettivo e misurabile. La mia azione (scrivere) non mi ha portato vantaggi economici, quindi il giudizio su di me è negativo. Io sono un fallito e tale mi considera il managerino del piano di sopra, che tutte le mattine esce di casa col suo completino grigio per andare a svolgere la sua utile funzione all’interno della società. Lui, formica operaia, fa un bilancio positivo della sua vita, economicamente e moralmente. Se sarà sufficientemente ottuso da non porsi mai interrogativi sul senso della sua vita, sarà felice, appagato di se stesso. Io non posso esserlo, gli interrogativi me li pongo e proprio per questo posso confermare che, come scrisse Musil, la stupidità rende felici. Ma nello stesso tempo, comprendo che è facile offendere il prossimo e sentirsi superiori grazie a una frase così scolpita, ma la verità è che il managerino è felice perché si sente parte di un tutto, utile alla società e io questa sensazione non sarei più in grado di provarla, perché l’esperienza del coma mi ha fatto comprendere l’estrema relatività dell’importanza individuale.

An English sportsman


La Signora Ulrike si era alzata presto, come al solito. Cercando di non svegliare il marito, aveva attraversato la suite dell’albergo de l’Etrier di Crans sur Sierre per andare nel salotto ad accendere il bollitore. Aveva bevuto la sua prima tazza di thè davanti alla vetrata, guardando la pioggerellina che cadeva monotona sulla grande terrazza. Il panorama era magnifico, per questo da più di quarant’anni lei e il marito passavano le prime due settimane di agosto in quella stessa stanza. Clienti abituali, una coppia di anziani coniugi fedele ai luoghi dove erano stati felici. Ora lei faticava a camminare, soprattutto a causa del peso. Settantaquattro anni, più di ottanta chili: vedendola, era impossibile immaginare che da ragazza fosse bella. Vittorio l’aveva conosciuta a una festa all’ambasciata, prima della guerra, quando era appena stato nominato Ambasciatore del Regno d’Italia a Bucarest. Naturalmente c’erano molti ufficiali tedeschi e uno di loro – un bavarese corpulento coi capelli scuri impomatati - aveva portato la giovane figlia in età da marito. Purtroppo morì durante l’avanzata sul fronte orientale e non ebbe vita sufficiente per assistere alle nozze.

Vittorio si svegliò quando la moglie chiuse la porta del bagno. Si stirò come un gatto e prese l’orologio appoggiato sul comodino: le otto meno un quarto. Si alzò di scatto, curioso di sapere che tempo facesse: “Pioggia, maledizione” pensò con disappunto, ma poi scrollò le spalle e si disse: “Andrò lo stesso.” Passando davanti al grande specchio dell’armadio, si osservò nel pigiama Derek Rose: “Mi ama, come darle torto?” In effetti, nonostante i suoi settantanove anni era ancora un bell’uomo, dritto, magro e soprattutto elegantissimo. Un nobile milanese, uno dei pochi. La Signora Ulrike uscì dal bagno e se lo trovò davanti così, coi capelli bianchi arruffati e gli occhi azzurri un po’ strizzati per lo sforzo di guardare senza occhiali. Pensò che era bello come la sera del primo incontro ed ebbe voglia di baciarlo sulla guancia. Lo fece di scatto e lui non fece in tempo a scostarsi, ma ebbe tutto il tempo di pensare: “E’ pazza. Un’elefantessa in camicia da notte col pizzo e enormi pantofole rosa di pelo vaporoso.”

“Vuoi una tazza di thè?”

“No, grazie. Scenderò a fare colazione, poi magari andrò a pescare.”

“Anche oggi?”

“Sì, con la pioggia si pesca meglio.”

Non gli domandò altro. In più di cinquant’anni di matrimonio, Vittorio non aveva mai pescato. Ora questa improvvisa passione per la pesca lo appassionava al punto che usciva al mattino presto e rientrava in albergo soltanto verso l’ora di cena. Nelle giornate di sole, lei si faceva portare una poltrona di vimini sotto un grande pino e se ne stava a leggere vecchi settimanali tedeschi o italiani. In quelle di pioggia guardava la televisione. Non aveva mai amato leggere libri, se li faceva raccontare da Vittorio. Il suo Vittorio, l’uomo della sua vita. L’altro uomo della sua vita, naturalmente, era suo padre, che nella sua fervida immaginazione lei aveva sempre immaginato come un eroe. In fondo, l’aveva quasi sempre visto in divisa e la morte prematura sul campo di battaglia ne aveva cristallizzato il ricordo. Poi, naturalmente, veniva Pigi, il loro unico figlio, un ragazzone molle, debosciato buono a nulla, che ora se ne stava in Sardegna ospite di amici insieme alla moglie piccolo borghese. Come ogni madre, vedeva i difetti del figlio, ma gli perdonava tutto. Vittorio no, stanco di far fronte ai debiti di figlio e nuora. Eppure Pigi adorava suo padre, in cuor suo lo invidiava anche e fin da bambino aveva cercato di imitarne l’eleganza ricercata e i modi cosmopoliti, con l’effetto – purtroppo – di una grottesca parodia.

L’abbigliamento da pesca di Vittorio consisteva in pantaloni di velluto alla zuava di Ravizza sport su stivaloni di gomma verde chiaro, giacca di Donegal tweed indossata sopra camicie a quadretti di Viyella, coppola in tinta, cesta di vimini e canna di bambù. Una sera, incontrandolo nella hall, un anziano signore inglese aveva sussurrato alla moglie: “An English sportsman!”

Anche quella mattina, vestito di tutto punto e con una cravatta tinta unita blu a sottolineare che la classe non è acqua, Vittorio aveva salutato la moglie, era sceso a fare colazione e dopo meno di mezz’ora era già al volante della sua Jaguar coupé diretto all’hotel Olimpic, a Montana. Aveva parcheggiato un po’ distante, poi con passo deciso attraversato la hall, salutato il concierge, salito a piedi le scale e finalmente bussato alla porta della camera 44. L’aveva scelta lui, per ricordarsi meglio il numero: “44, come i tuoi anni. Così non potrò scordarmi il numero.”

Lei gli aveva aperto in tanga e reggiseno: una vista da infarto!

Lui viveva per quello, non poteva più farne a meno. Naturalmente, al ristorante, dopo pranzo, si faceva mettere nella cesta di vimini una o due trotelle, per mostrarle alla moglie: con orgoglio estraeva il pesce puzzolente e quasi lo sventolava davanti agli occhi della signora Ulrike, ridendo come un bambino. Lei pensava: “E’ così felice, sono contenta per lui. Questa vacanza gli fa proprio bene, sembra persino ringiovanito.” Lui – che aveva orrore dei pesci e soprattutto della puzza sulle mani affusolate coperte di vitiligine – rimetteva la trotella nella cesta e la regalava alla cameriera dell’albergo.

Un giorno, dopo dodici fortunate battute di pesca, Vittorio ebbe davvero un infarto. Guardandosi nudo nello specchio del grande armadio, fieramente rampante sopra la sua amante a quattro zampe sul lettone, fu trafitto da un dolore al petto e stramazzò ingloriosamente sul materasso. Lei, presa dal panico, telefonò immediatamente alla reception pregando la ragazzona tirolese di chiamare un’ambulanza. Con entrambe le mani strette sullo sterno, Vittorio la implorava di rivestirlo e di farlo portar via dalla stanza. Nella confusione, s’immaginava già lo scandalo: la sua vita esemplare distrutta da un solo gesto riprovevole. Per generazioni i suoi discendenti avrebbero riso di lui. “Mio Dio, non così” implorò e s’illuse che fosse tutto un brutto sogno, un incubo grottesco e surreale. Ma il dolore era reale, più reale di quanto avesse mai vissuto, e comprese che era la fine. In fondo, meglio morire che affrontare da vivo un simile scandalo. Sportivo, in fondo, lo era davvero: sapeva perdere. Così, rassegnato al suo Destino, se ne andò con un sorriso.

venerdì 11 settembre 2015

Perdono

Nella dolorosa disperazione di questa sera
in cui ogni bilancio è in passivo
e anche arrivare al frigorifero
per cercare qualcosa da mangiare
è un passo di troppo
lucidamente consapevole che le colpe sono mie
vorrei domandare a tutti coloro che ho ferito
di perdonare il dolore che ho inferto
per la mia rabbia contro la vita
a cui non ho il coraggio di porre fine
almeno non ancora
perché so che la morte non è un sequel
e non potrei rimediare
ma se non so compiere la violenza definitiva
indirizzata contro me stesso
non è per pietà né per speranza
ma forse soltanto per la certezza
che causerei altro dolore a chi nonostante tutto
mi vuole bene immotivatamente
così non sapendo davvero
dove rivolgere il mio sguardo
a occhi bassi seduto in giardino
lentamente aspiro il fumo di una sigaretta
io che non fumavo da vent'anni
e questo fumo è il labile legame
tra il ragazzo che ero e l'uomo che sono
e ancor più fumosa è l'immagine
del vecchio che forse sto diventando
nessuno lascia nulla tranne un posacenere colmo
ma io mi ero illuso di lasciare un'impronta
e soltanto adesso nell'implacabile lucidità
di questa sera appena prima dell'autunno
io comprendo in maniera definitiva
la mostruosa vanità di ogni tentativo