venerdì 18 settembre 2015

An English sportsman


La Signora Ulrike si era alzata presto, come al solito. Cercando di non svegliare il marito, aveva attraversato la suite dell’albergo de l’Etrier di Crans sur Sierre per andare nel salotto ad accendere il bollitore. Aveva bevuto la sua prima tazza di thè davanti alla vetrata, guardando la pioggerellina che cadeva monotona sulla grande terrazza. Il panorama era magnifico, per questo da più di quarant’anni lei e il marito passavano le prime due settimane di agosto in quella stessa stanza. Clienti abituali, una coppia di anziani coniugi fedele ai luoghi dove erano stati felici. Ora lei faticava a camminare, soprattutto a causa del peso. Settantaquattro anni, più di ottanta chili: vedendola, era impossibile immaginare che da ragazza fosse bella. Vittorio l’aveva conosciuta a una festa all’ambasciata, prima della guerra, quando era appena stato nominato Ambasciatore del Regno d’Italia a Bucarest. Naturalmente c’erano molti ufficiali tedeschi e uno di loro – un bavarese corpulento coi capelli scuri impomatati - aveva portato la giovane figlia in età da marito. Purtroppo morì durante l’avanzata sul fronte orientale e non ebbe vita sufficiente per assistere alle nozze.

Vittorio si svegliò quando la moglie chiuse la porta del bagno. Si stirò come un gatto e prese l’orologio appoggiato sul comodino: le otto meno un quarto. Si alzò di scatto, curioso di sapere che tempo facesse: “Pioggia, maledizione” pensò con disappunto, ma poi scrollò le spalle e si disse: “Andrò lo stesso.” Passando davanti al grande specchio dell’armadio, si osservò nel pigiama Derek Rose: “Mi ama, come darle torto?” In effetti, nonostante i suoi settantanove anni era ancora un bell’uomo, dritto, magro e soprattutto elegantissimo. Un nobile milanese, uno dei pochi. La Signora Ulrike uscì dal bagno e se lo trovò davanti così, coi capelli bianchi arruffati e gli occhi azzurri un po’ strizzati per lo sforzo di guardare senza occhiali. Pensò che era bello come la sera del primo incontro ed ebbe voglia di baciarlo sulla guancia. Lo fece di scatto e lui non fece in tempo a scostarsi, ma ebbe tutto il tempo di pensare: “E’ pazza. Un’elefantessa in camicia da notte col pizzo e enormi pantofole rosa di pelo vaporoso.”

“Vuoi una tazza di thè?”

“No, grazie. Scenderò a fare colazione, poi magari andrò a pescare.”

“Anche oggi?”

“Sì, con la pioggia si pesca meglio.”

Non gli domandò altro. In più di cinquant’anni di matrimonio, Vittorio non aveva mai pescato. Ora questa improvvisa passione per la pesca lo appassionava al punto che usciva al mattino presto e rientrava in albergo soltanto verso l’ora di cena. Nelle giornate di sole, lei si faceva portare una poltrona di vimini sotto un grande pino e se ne stava a leggere vecchi settimanali tedeschi o italiani. In quelle di pioggia guardava la televisione. Non aveva mai amato leggere libri, se li faceva raccontare da Vittorio. Il suo Vittorio, l’uomo della sua vita. L’altro uomo della sua vita, naturalmente, era suo padre, che nella sua fervida immaginazione lei aveva sempre immaginato come un eroe. In fondo, l’aveva quasi sempre visto in divisa e la morte prematura sul campo di battaglia ne aveva cristallizzato il ricordo. Poi, naturalmente, veniva Pigi, il loro unico figlio, un ragazzone molle, debosciato buono a nulla, che ora se ne stava in Sardegna ospite di amici insieme alla moglie piccolo borghese. Come ogni madre, vedeva i difetti del figlio, ma gli perdonava tutto. Vittorio no, stanco di far fronte ai debiti di figlio e nuora. Eppure Pigi adorava suo padre, in cuor suo lo invidiava anche e fin da bambino aveva cercato di imitarne l’eleganza ricercata e i modi cosmopoliti, con l’effetto – purtroppo – di una grottesca parodia.

L’abbigliamento da pesca di Vittorio consisteva in pantaloni di velluto alla zuava di Ravizza sport su stivaloni di gomma verde chiaro, giacca di Donegal tweed indossata sopra camicie a quadretti di Viyella, coppola in tinta, cesta di vimini e canna di bambù. Una sera, incontrandolo nella hall, un anziano signore inglese aveva sussurrato alla moglie: “An English sportsman!”

Anche quella mattina, vestito di tutto punto e con una cravatta tinta unita blu a sottolineare che la classe non è acqua, Vittorio aveva salutato la moglie, era sceso a fare colazione e dopo meno di mezz’ora era già al volante della sua Jaguar coupé diretto all’hotel Olimpic, a Montana. Aveva parcheggiato un po’ distante, poi con passo deciso attraversato la hall, salutato il concierge, salito a piedi le scale e finalmente bussato alla porta della camera 44. L’aveva scelta lui, per ricordarsi meglio il numero: “44, come i tuoi anni. Così non potrò scordarmi il numero.”

Lei gli aveva aperto in tanga e reggiseno: una vista da infarto!

Lui viveva per quello, non poteva più farne a meno. Naturalmente, al ristorante, dopo pranzo, si faceva mettere nella cesta di vimini una o due trotelle, per mostrarle alla moglie: con orgoglio estraeva il pesce puzzolente e quasi lo sventolava davanti agli occhi della signora Ulrike, ridendo come un bambino. Lei pensava: “E’ così felice, sono contenta per lui. Questa vacanza gli fa proprio bene, sembra persino ringiovanito.” Lui – che aveva orrore dei pesci e soprattutto della puzza sulle mani affusolate coperte di vitiligine – rimetteva la trotella nella cesta e la regalava alla cameriera dell’albergo.

Un giorno, dopo dodici fortunate battute di pesca, Vittorio ebbe davvero un infarto. Guardandosi nudo nello specchio del grande armadio, fieramente rampante sopra la sua amante a quattro zampe sul lettone, fu trafitto da un dolore al petto e stramazzò ingloriosamente sul materasso. Lei, presa dal panico, telefonò immediatamente alla reception pregando la ragazzona tirolese di chiamare un’ambulanza. Con entrambe le mani strette sullo sterno, Vittorio la implorava di rivestirlo e di farlo portar via dalla stanza. Nella confusione, s’immaginava già lo scandalo: la sua vita esemplare distrutta da un solo gesto riprovevole. Per generazioni i suoi discendenti avrebbero riso di lui. “Mio Dio, non così” implorò e s’illuse che fosse tutto un brutto sogno, un incubo grottesco e surreale. Ma il dolore era reale, più reale di quanto avesse mai vissuto, e comprese che era la fine. In fondo, meglio morire che affrontare da vivo un simile scandalo. Sportivo, in fondo, lo era davvero: sapeva perdere. Così, rassegnato al suo Destino, se ne andò con un sorriso.

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