Sentieri selvaggi
(Liber amicorum Mauro della Porta Raffo, 2020)
C’è stato un tempo, in
verità molto lontano, in cui essere uomini aveva un profondo significato.
Qualità considerate – a
torto o a ragione – maschili, come il coraggio, erano importanti.
In quel tempo,
l’umanità era ancora capace di distinguere l’eroismo e di ammirare gli eroi,
persone straordinarie, capaci di compiere generosi atti di coraggio.
Coraggio, cor habeo,
virtù oggi banalizzata, svuotata di significato.
Anni di nichilismo, di
svilimento della vita umana, di abbruttimento consumistico e di ateismo ci
hanno fatto perdere di vista la sacralità della vita, la straordinaria unicità
della vita di ciascun essere vivente, il miracolo che fa sì che ogni istante –
ogni singolo istante – sia diverso da tutti gli altri.
Oggi si desidera essere
come gli altri, uguali ai modelli propagandati dai media, dalla pubblicità,
dagli influencer.
“È una malattia.
La gente ha smesso di
pensare, di provare emozioni, di interessarsi alle cose; nessuno che si
appassioni o creda in qualcosa che non sia la sua piccola, dannata, comoda
mediocrità” (Richard Yates).
Si ha paura di essere
se stessi.
Forse, è anche per
questo che è difficile incontrare un vero artista:
“Il vero artista è uno
che crede profondamente in sé stesso, perché è profondamente sé stesso” (Oscar
Wilde).
Eppure, ciò che rende
ciascuna vita così preziosa è proprio la sua unicità.
Ciascuna vita – finché
è vita - è ora e mai più, esattamente come ciascun istante è diverso dall’altro:
così è sempre stato e così sempre sarà.
L’eroe non è il suicida
che odia la vita e si fa esplodere per guadagnarsi il paradiso. L’eroe ama la
vita e se rischia la propria è per aiutare il prossimo.
Spesso, la sua dote
principale non è il coraggio, ma la compassione.
Per il cristiano, la
carità, la virtù teologale che è amore di Dio e amore del prossimo in quanto
creatura di Dio:
“Ama dunque il Signore
Dio tuo con tutto il tuo cuore (…) Ama il tuo prossimo come te stesso. Non c’è
nessun altro comandamento maggiore di questi” (Marco 12,28-31).
Un uomo saggio ha usato
queste parole:
“Je crois que la vie
est belle car elle se termine” (Jean d’Ormesson).
Sembra una
contraddizione: tutti noi siamo in grado di distinguere l’istante meraviglioso
e pensiamo che sia triste che debba essere finito.
Eppure, quell’istante è
meraviglioso proprio perché diverso da un istante orribile: senza l’uno, non ci
sarebbe l’altro.
Il grande miracolo è la
diversità, la sacralità è data dall’unicità irripetibile.
Perpetuum mobile, panta
rei, ogni fine è un inizio…
Forse, per chi come me
non ha fede e non può credere a un significato trascendente, la vita non
andrebbe considerata come un viaggio individuale, ma come un viaggio collettivo
della vita stessa – sopra una sfera in movimento tra miliardi di corpi celesti
– incominciato nella notte dei tempi in un luogo dell’universo a noi ignoto e
destinato a concludersi alla nostra destinazione finale.
Noi esseri umani non
siamo che una tra le molteplici forme della vita.
Per noi, romantici
cresciuti nel culto della virtù dell’eroismo, la bellezza della vita umana, la
sua piena realizzazione, può compiersi in un singolo atto di eroismo.
Tuttavia, siamo in
grado di distinguere tra veri e falsi eroi, non ci lasciamo portare fuori
strada dalle esagerazioni dei cattivi giornalisti, per i quali chiunque compia
il suo lavoro scrupolosamente diventa un eroe.
Nossignori, non è così.
Il nostro modello di
eroe è Ethan Edwards (John Wayne) in ‘Sentieri selvaggi’, che per anni insegue
i Comanche per riportare a casa la nipote Debbie, rischiando la propria vita.
Noi, forse ingenui,
siamo cresciuti sognando la nostra entrata in scena trionfale, l’istante che
avrebbe rivelato – a noi stessi e al mondo – che eravamo coraggiosi, capaci di
quell’unico gesto di eroismo che solo avrebbe dato un significato alla nostra
vita mortale.
Naturalmente, ogni eroe
vive quell’attesa come una noia e questa è la sua croce.
Come Giovanni Drogo, il
protagonista de ‘Il deserto dei tartari’, il rischio è attendere passivamente,
sprecare la vita nell’attesa di qualcosa che potrebbe non giungere mai.
Alla fine di una vita
sprecata, senza un atto di eroismo non vi è riscatto possibile: noi non la
pensiamo come Dino Buzzati, non ci basterebbe come consolazione il pensiero di
morire con dignità.
Noi vorremmo morire
martiri per aiutare il prossimo.
No, non siamo
passivamente inetti: nell’attesa della nostra occasione, facciamo del nostro
meglio per ingannare il tempo e, soprattutto, per migliorarci.
“Poiché il suo corpo è
condannato a morte, il suo compito sulla Terra evidentemente deve essere più
spirituale: non un totale accaparramento di beni nella vita quotidiana, non la
ricerca di modi migliori per ottenere beni materiali e quindi non la
spensieratezza con il loro consumo.
La vita deve invece
essere il compimento di una riflessione costante e seria in modo che il nostro
viaggio nel tempo possa essere soprattutto un'esperienza di crescita morale,
per diventare esseri umani migliori” (Aleksandr Solgenitsin).
Così, dopo molti lustri
in questo mondo, la nostra unicità si accresce di caratteristiche che entrano a
far parte della nostra personalità.
Pur detestando Sartre,
devo ammettere che è in parte vero che sia l’esistenza a determinare l’essenza,
almeno dopo un lungo percorso.
Soprattutto, non
vogliamo smettere di pensare, di provare emozioni, di interessarci alle cose.
I risultati dei nostri
sforzi individuali sono – ancora una volta – unici e irripetibili.
Penso a MdPR: chi è
straordinariamente colto, per contrappasso è condannato a vivere in un mondo di
ignoranti.
Se poi chi è colto (e
la sua cultura è il frutto di una curiosità intellettuale a trecentosessanta
gradi) ha una memoria prodigiosa…
Beh, non oso pensare
che opinione possa avere dei comuni mortali che poco studiano, non tutto
capiscono e quasi nulla ricordano.
Oggi, l’umanità è
inebetita, costantemente alla ricerca di soddisfare bisogni indotti, senza più
valori, senza una vera volontà di cambiamento, sempre con la mente altrove,
davanti ai propri schermi, ignorante, indifferente, impassibile rispetto alla
quasi totalità dei problemi importanti ma anche rispetto alle effettive
esperienze altrui, tanto che uno scrittore del ventesimo secolo descrisse così
la vita:
“La vita è movimento.
Un moto, però,
circolare (intorno a quel piccolo nucleo che si chiama ‘io’), un moto talmente
circoscritto che assomiglia a un piétiner sur place.
Circoscritto dal gran
cerchio d’ombra di tutto quello che sfugge alla nostra cognizione, o di cui non
c’interessa cognizione.
E non alludo allo
scibile, né tantomeno al “mistero dell’universo”, alludo a ciò che rappresenta
la realtà spicciola, la più vicina a noi.” (Guido Morselli, Dissipatio H.G.).
Libere elezioni
democratiche portano al potere una classe dirigente simile ai propri elettori:
terrorizzata dai cambiamenti imposti dalla modernità, ignorante, inesperta.
La parole pronunziate
nel 1980 da Isaac Asimov, davvero profetiche, descrivono la situazione:
“Una vena di
anti-intellettualismo si è insinuata nei gangli vitali della nostra politica e
cultura, alimentata dalla falsa nozione che democrazia significhi ‘la mia
ignoranza vale quanto la tua conoscenza’".
In questo teatro,
ciascuno di noi recita la sua parte, senza darsi cura di ascoltare la parte di
tutti gli altri oppure (peggio!) costretto ad ascoltare le parti dei soliti
famosi imbecilli.
Nel mio ‘L’uomo di
seta’, ho esortato mia figlia con queste parole:
“Fai tutto questo nella
piena consapevolezza che forse non otterrai alcun beneficio: alla fine,
tuttavia, non sarà stato inutile perché è nella misura dello sforzo che
all’ultimo istante giudicherai la tua vita.
Il risultato, spesso,
non dipende da noi.”
No, questo mondo non
cambierà in meglio, non assisteremo a un nuovo Rinascimento.
Rassegnati, nell’attesa
forse vana della nostra entrata in scena trionfale, continueremo a dedicarci ai
nostri passatempi: MdPR scriverà un milione di nuove voci del suo folle e
sublime ‘Dizionario Enciclopedico’, imparando nuove nozioni senza mai
dimenticare le vecchie.
Ma soprattutto,
continuerà a mandare agli amici gli straordinari frutti della sua cultura: ne
abbiamo bisogno, sono un benefico conforto.
Per cui, anche se “La
vie est belle car elle se termine”, fatti i debiti scongiuri io brindo alla mia
amicizia con MdPR augurandogli (e augurandomi) di commentare le elezioni
americane almeno fino al 2060.