martedì 5 ottobre 2021

La leggenda di Captain Hook

 

LA LEGGENDA DI CAPTAIN HOOK

Secondo Nanni Svampa, milanese trasferitosi a Portovaltravaglia, la straordinaria vena creativa dei Luinesi sarebbe dovuta a una sotterranea vena magnetica che, partendo dal Monte Verità, lambirebbe la parte settentrionale della “sponda magra” del Lago Maggiore.

 

In questo fazzoletto del Varesotto, capita ancora oggi di ascoltare storie meravigliose, narrate al bar da vecchi giocatori di scopa o di biliardo, in cui realtà e fantasia, sapientemente mescolate per anni, sono ormai inscindibili.

Ne conosco molte divertenti, ma la mia preferita resta quella di Captain Hook.

 

Era il 1977, Dino Risi stava girando La stanza del vescovo, tratto dal romanzo di Piero Chiara. Cinque ragazzi di Portovaltravaglia organizzarono una gita in barca, per andare a spiare la troupe e, se possibile, vedere da vicino la bellissima ventiduenne Ornella Muti. Decisero di partire con il motoscafo più bello del piccolo paese, quello dell’Ing. Alfredo Sonzini, un Riva Florida del 1963. Ne parlarono col figlio Luigi, classe 1942, il quale accettò volentieri. Così, in sei, il numero massimo consentito sul motoscafo, partirono all’inseguimento della Tinca, la barca a vela del protagonista.

 

Giunti a destinazione Luigi, che già aveva avuto flirt con un paio di note attrici, riuscì a farsi fare autografi per tutti e a invitare a cena le truccatrici, nella speranza (vana) di conoscere la Muti. La serata finì in allegria e uno dei ragazzi, che fino a quel giorno era sempre stato oggetto di scherzi a causa della sua gobba, perse la verginità nella camera d’albergo di una trentenne un po’ sovrappeso.

Al mattino, gli amici lo aspettarono al molo. Arrivò insieme a lei, appagata, felice. Lo accolsero con un applauso, dandosi di gomito e preparandosi a sfotterlo, ma lei li zittì:

“Ridete, ridete. Ma sappiate che l’applauso è meritato: io di uomini ho una certa esperienza e questo qui è uno stallone!”.

 

La voce che il gobbo fosse uno stallone non tardò a diffondersi per Portovaltravaglia.

Lui, che dopo la scuola aveva sempre fatto piccoli lavori per guadagnarsi qualche lira, diventò il più richiesto nelle ville. Più che altro, quelle mogli annoiate lo osservavano mentre tagliava l’erba, spostava un vaso pesante o saliva su una scala per potare un vecchio albero, ma nessuna osò spingersi più in là.

 

Poi, verso la fine di giugno, come ogni estate, arrivò in paese la famosa cantante Lena Olnivorna. Bella, spregiudicata, libera, un figlio appena più giovane del gobbo, fino a quel 1977 aveva trascorso il tempo prendendo il sole a bordo piscina, giocando a tennis e a canasta. Quell’anno invece la vita sociale nella sua villa venne ridotta al minimo e nei pomeriggi estivi villeggianti di passaggio udirono distintamente gemiti che non era possibile confondere con esercizi musicali.

 

Alla fine di settembre, seduto sul sedile posteriore della Mercedes 350 SE, il gobbo fu riportato a Milano come il trofeo di uno strano safari. Gli amici, sbalorditi e invidiosi, si aspettavano di vederlo ritornare dopo qualche giorno.

La sera, al bar, qualcuno diceva: “Secondo me domani torna il gobbo” e si aprivano le scommesse.

 

Invece passò l’inverno, alla fine di giugno Lena Olnivorna tornò alla villa, ma del gobbo neanche l’ombra. L’unica persona che sapesse dov’era era la madre, vedova dal lontano 1973, sarda come il suo povero marito, ma lei non diceva nulla. A chi le domandasse come stava suo figlio, immancabilmente rispondeva: “Bene, grazie. E il suo?”.

 

Nell’estate del 1980, Luigi Sonzini era a Saint Tropez. Seduto al bar Sénéquier, sorseggiava un Kir Royal osservando distrattamente gli yacht ormeggiati lì davanti. A un certo punto, da un motorino pieghevole scese un ragazzone un po’ gobbo, con un paio di bermuda beige e una camicia di lino blu: il gobbo!

Lo chiamò col suo nome, che in paese nessuno – a parte la madre - aveva mai usato: “Gavino!”.

Si voltò, si videro e si salutarono calorosamente. “Che ci fai a Saint Tropez?”.

“Sono in crociera sullo yacht di Sissi Ramazzotti, la stilista, e lei?”.

“Non darmi del lei, mi offendo! Sono qui in albergo, resto un paio di settimane. Ma raccontami, vivi a Milano, cosa fai?”.

“Sì. Faccio lo stilista, disegno la collezione maschile della Ramazzotti”.

“Ma pensa, non sapevo che sapessi disegnare”.

“No, non so disegnare. Vado a New York, compro qualcosa nei grandi magazzini tipo Neiman Marcus e lo copio”.

Risero. “Vuoi salire in barca? Ti presento Sissi e ci beviamo un aperitivo”.

“Grazie, con piacere”.

Così si ritrovarono seduti nel pozzetto di uno yacht di 90 piedi, osservati con invidia dai passanti.

Sissi, per rompere il ghiaccio, domandò: “Come ha conosciuto Kevin?”.

Sonzini, che non era uno stupido, trattenne una risata e raccontò una bugia: “Sul set di un film”.

E lei, rivolta a Gavino: “Kevin, non mi hai mai detto di essere stato un attore…”.

“Beh, c’è poco da dire. Ero soltanto una comparsa”.

“E lei, Luigi?”.

Lui si schernì: “Io volevo l’autografo di Ornella Muti”.

Cenarono insieme, in barca, serviti da un maggiordomo in livrea. Poi Luigi, che non vedeva l’ora di telefonare a qualche amico di Portovaltravaglia per raccontargli l’incredibile storia, tornò da solo in albergo.

 

Così la storia del gobbo divenne una leggenda. Ci fu chi disse di averlo incontrato a Roma, chi di averlo scorto al TG1, seduto in prima fila alle sfilate di Giorgio Armani, chi giurò che era l’amante della figlia del più noto industriale dell’epoca.

 

Gli anni passarono. Portovaltravaglia, a dieci chilometri dal confine, è un paese di frontalieri. Un pomeriggio, un compagno di classe del gobbo, ora saldatore a Pregassona, si fermò a Fornasette a fare benzina. Alla cassa, sul bancone, si ritrovò davanti un settimanale in tedesco con – proprio in copertina – la fotografia della principessa Stéphanie di Monaco, appena divorziata da Daniel Ducruet. Incredulo, inforcò gli occhiali da presbite. Accanto alla principessa, sorridente, c’era il gobbo! Tutto il paese si passò, di mano in mano, quella incredibile fotografia. La sera, al bar, gli amici di sempre, oggi padri di famiglia di mezz’età, si vantavano di aver conosciuto “il futuro principe” e restarono delusi quando Stéphanie si risposò con Adans Lopez Peres!

 

Intanto, la vecchia madre aveva lasciato Portovaltravaglia già da molti anni: si diceva che fosse tornata in Sardegna da sua sorella. Eppure, l’appartamento proprio sopra la farmacia non era stato venduto.

 

Una mattina di giugno, circa dieci anni fa, Gavino tornò a casa.

Arrivò in treno, alla piccola stazione di Portovaltravaglia, con una pesante valigia di Vuitton e camminò per tutta via Roma. In trentatré anni, il paese era cambiato. Tutti i vecchi negozi erano chiusi, eccetto Stornelli, il ferramenta. Dopo l’apertura del nuovo supermercato, avevano chiuso panetteria, latteria, macelleria, tintoria, profumeria e il vecchio negozio di giocattoli.

Fu proprio Stornelli a dare la notizia. Così, quella sera, un manipolo di vecchi amici si ritrovò al bar a commentare l’incredibile notizia, ma nessuno trovò il coraggio di andare fino alla farmacia, a suonare il citofono del gobbo.

 

Nei giorni successivi, lui uscì raramente, soltanto per andare al supermercato. Elegante, perfettamente pettinato (aveva ancora folti capelli grigi), ogni tanto scambiava due parole con la cassiera o accennava un saluto quando incontrava un viso famigliare, ma al bar non lo si vide mai.

“E’ diventato uno stronzo, proprio uno stronzo”, commentavano gli ex compagni di scuola. “Chissà chi si crede di essere”. “Kevin un cazzo, Gavino è stato battezzato e Gavino verrà seppellito, quel gobbo di merda”. “Altro che stilista, quello ha messo la minchia a reddito!”.

Eppure, sotto sotto, erano fieri di lui.

 

Un pomeriggio, alla cassa del supermercato, una signora olandese cercava di domandare alla cassiera dove si trovasse il veleno per topi. Gavino era in coda. In un perfetto inglese fece da traduttore. Il resto fa parte della leggenda: la invitò a cena a Luino, dormì nella villa di lei e, tre giorni più tardi, abitavano insieme. Per il suo compleanno, lei gli regalò una Jaguar e a quel punto fu evidente che la loro relazione era una cosa seria.

 

Con la Jaguar, Gavino andava spesso a Luino, al caffè Clerici e si sedeva da solo a bere un bianco. Nessuno sa cosa gli passasse per la testa, ma amava quel luogo e restava anche un’ora a guardare le barche nel vecchio porticciolo. Proprio lì, una sera di ottobre, se lo ritrovò davanti uno dei vecchi amici di un tempo: “Gavino, ciao, mi riconosci?”.

“Certamente, anche se sei un po’ ingrassato!”.

Scherzarono, ricordarono un viaggio in motoscafo di trentatré anni prima, si lasciarono promettendo di rivedersi dal Vanni, a Portovaltravaglia.

 

Finalmente, una sera di novembre, la Jaguar passò piano davanti al bar del Vanni. Gavino scese, in jeans, maglione a collo alto e stivali da cow-boy. Unirono due tavoli e lui raccontò per mezz’ora dei suoi viaggi a New York, della sua società ora fallita, dei quattro figli avuti da tre mogli diverse e di molte altre incredibili avventure.

Venne interrotto: “Gavino, raccontaci delle donne! Il resto non ci interessa. Quante ne hai avute?”.

Lui sorrise, poi sornione sussurrò: “Trecento, forse quattrocento”.

“Ciumbia! Aveva ragione la truccatrice cicciottella, te la ricordi?”.

“Forza, rivelaci il tuo segreto: quanto è lungo?”.

“No, non è tanto quello”. Fece una pausa, poi: “Non ho soltanto la gobba sulla schiena, ma anche…” e indicò la patta dei jeans. “A New York, una delle mie amanti mi aveva soprannominato Captain Hook, Capitan Uncino!”.

Risate. Lui proseguì: “Io me ne vergognavo. Invece la curvatura alle donne piace, le fa impazzire!”.

Tutti risero fragorosamente, mimando con ampi gesti dell’ombrello l’osceno segreto.

 

A Natale, chiuse la casa sopra la farmacia e se ne andò a vivere ad Amsterdam.

La villa della signora olandese è stata venduta.

Non è più tornato, nessuno sa se tornerà.

Eppure, dieci anni più tardi, dopo un paio di bicchieri, capita che qualcuno racconti ancora oggi la sua storia, la storia di Captain Hook.

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