LA LEGGENDA DI CAPTAIN
HOOK
Secondo Nanni Svampa,
milanese trasferitosi a Portovaltravaglia, la straordinaria vena creativa dei
Luinesi sarebbe dovuta a una sotterranea vena magnetica che, partendo dal Monte
Verità, lambirebbe la parte settentrionale della “sponda magra” del Lago Maggiore.
In questo fazzoletto
del Varesotto, capita ancora oggi di ascoltare storie meravigliose, narrate al
bar da vecchi giocatori di scopa o di biliardo, in cui realtà e fantasia,
sapientemente mescolate per anni, sono ormai inscindibili.
Ne conosco molte
divertenti, ma la mia preferita resta quella di Captain Hook.
Era il 1977, Dino Risi
stava girando La stanza del vescovo, tratto dal romanzo di Piero Chiara. Cinque
ragazzi di Portovaltravaglia organizzarono una gita in barca, per andare a
spiare la troupe e, se possibile, vedere da vicino la bellissima ventiduenne
Ornella Muti. Decisero di partire con il motoscafo più bello del piccolo paese,
quello dell’Ing. Alfredo Sonzini, un Riva Florida del 1963. Ne parlarono col
figlio Luigi, classe 1942, il quale accettò volentieri. Così, in sei, il numero
massimo consentito sul motoscafo, partirono all’inseguimento della Tinca, la
barca a vela del protagonista.
Giunti a destinazione
Luigi, che già aveva avuto flirt con un paio di note attrici, riuscì a farsi
fare autografi per tutti e a invitare a cena le truccatrici, nella speranza
(vana) di conoscere la Muti. La serata finì in allegria e uno dei ragazzi, che
fino a quel giorno era sempre stato oggetto di scherzi a causa della sua gobba,
perse la verginità nella camera d’albergo di una trentenne un po’ sovrappeso.
Al mattino, gli amici
lo aspettarono al molo. Arrivò insieme a lei, appagata, felice. Lo accolsero
con un applauso, dandosi di gomito e preparandosi a sfotterlo, ma lei li zittì:
“Ridete, ridete. Ma sappiate
che l’applauso è meritato: io di uomini ho una certa esperienza e questo qui è
uno stallone!”.
La voce che il gobbo
fosse uno stallone non tardò a diffondersi per Portovaltravaglia.
Lui, che dopo la scuola
aveva sempre fatto piccoli lavori per guadagnarsi qualche lira, diventò il più
richiesto nelle ville. Più che altro, quelle mogli annoiate lo osservavano
mentre tagliava l’erba, spostava un vaso pesante o saliva su una scala per
potare un vecchio albero, ma nessuna osò spingersi più in là.
Poi, verso la fine di
giugno, come ogni estate, arrivò in paese la famosa cantante Lena Olnivorna.
Bella, spregiudicata, libera, un figlio appena più giovane del gobbo, fino a
quel 1977 aveva trascorso il tempo prendendo il sole a bordo piscina, giocando
a tennis e a canasta. Quell’anno invece la vita sociale nella sua villa venne
ridotta al minimo e nei pomeriggi estivi villeggianti di passaggio udirono
distintamente gemiti che non era possibile confondere con esercizi musicali.
Alla fine di settembre,
seduto sul sedile posteriore della Mercedes 350 SE, il gobbo fu riportato a
Milano come il trofeo di uno strano safari. Gli amici, sbalorditi e invidiosi,
si aspettavano di vederlo ritornare dopo qualche giorno.
La sera, al bar,
qualcuno diceva: “Secondo me domani torna il gobbo” e si aprivano le scommesse.
Invece passò l’inverno,
alla fine di giugno Lena Olnivorna tornò alla villa, ma del gobbo neanche
l’ombra. L’unica persona che sapesse dov’era era la madre, vedova dal lontano
1973, sarda come il suo povero marito, ma lei non diceva nulla. A chi le
domandasse come stava suo figlio, immancabilmente rispondeva: “Bene, grazie. E
il suo?”.
Nell’estate del 1980,
Luigi Sonzini era a Saint Tropez. Seduto al bar Sénéquier, sorseggiava un Kir
Royal osservando distrattamente gli yacht ormeggiati lì davanti. A un certo
punto, da un motorino pieghevole scese un ragazzone un po’ gobbo, con un paio
di bermuda beige e una camicia di lino blu: il gobbo!
Lo chiamò col suo nome,
che in paese nessuno – a parte la madre - aveva mai usato: “Gavino!”.
Si voltò, si videro e
si salutarono calorosamente. “Che ci fai a Saint Tropez?”.
“Sono in crociera sullo
yacht di Sissi Ramazzotti, la stilista, e lei?”.
“Non darmi del lei, mi
offendo! Sono qui in albergo, resto un paio di settimane. Ma raccontami, vivi a
Milano, cosa fai?”.
“Sì. Faccio lo
stilista, disegno la collezione maschile della Ramazzotti”.
“Ma pensa, non sapevo
che sapessi disegnare”.
“No, non so disegnare.
Vado a New York, compro qualcosa nei grandi magazzini tipo Neiman Marcus e lo
copio”.
Risero. “Vuoi salire in
barca? Ti presento Sissi e ci beviamo un aperitivo”.
“Grazie, con piacere”.
Così si ritrovarono
seduti nel pozzetto di uno yacht di 90 piedi, osservati con invidia dai
passanti.
Sissi, per rompere il
ghiaccio, domandò: “Come ha conosciuto Kevin?”.
Sonzini, che non era
uno stupido, trattenne una risata e raccontò una bugia: “Sul set di un film”.
E lei, rivolta a
Gavino: “Kevin, non mi hai mai detto di essere stato un attore…”.
“Beh, c’è poco da dire.
Ero soltanto una comparsa”.
“E lei, Luigi?”.
Lui si schernì: “Io
volevo l’autografo di Ornella Muti”.
Cenarono insieme, in
barca, serviti da un maggiordomo in livrea. Poi Luigi, che non vedeva l’ora di
telefonare a qualche amico di Portovaltravaglia per raccontargli l’incredibile
storia, tornò da solo in albergo.
Così la storia del
gobbo divenne una leggenda. Ci fu chi disse di averlo incontrato a Roma, chi di
averlo scorto al TG1, seduto in prima fila alle sfilate di Giorgio Armani, chi
giurò che era l’amante della figlia del più noto industriale dell’epoca.
Gli anni passarono.
Portovaltravaglia, a dieci chilometri dal confine, è un paese di frontalieri.
Un pomeriggio, un compagno di classe del gobbo, ora saldatore a Pregassona, si
fermò a Fornasette a fare benzina. Alla cassa, sul bancone, si ritrovò davanti
un settimanale in tedesco con – proprio in copertina – la fotografia della
principessa Stéphanie di Monaco, appena divorziata
da Daniel Ducruet. Incredulo, inforcò gli occhiali da presbite. Accanto alla
principessa, sorridente, c’era il gobbo! Tutto il paese si passò, di mano in mano,
quella incredibile fotografia. La sera, al bar, gli amici di sempre, oggi padri
di famiglia di mezz’età, si vantavano di aver conosciuto “il futuro principe” e
restarono delusi quando Stéphanie si risposò con Adans Lopez Peres!
Intanto, la vecchia
madre aveva lasciato Portovaltravaglia già da molti anni: si diceva che fosse
tornata in Sardegna da sua sorella. Eppure, l’appartamento proprio sopra la
farmacia non era stato venduto.
Una mattina di giugno,
circa dieci anni fa, Gavino tornò a casa.
Arrivò in treno, alla piccola
stazione di Portovaltravaglia, con una pesante valigia di Vuitton e camminò per
tutta via Roma. In trentatré anni, il paese era cambiato. Tutti i vecchi negozi
erano chiusi, eccetto Stornelli, il ferramenta. Dopo l’apertura del nuovo
supermercato, avevano chiuso panetteria, latteria, macelleria, tintoria,
profumeria e il vecchio negozio di giocattoli.
Fu proprio Stornelli a
dare la notizia. Così, quella sera, un manipolo di vecchi amici si ritrovò al
bar a commentare l’incredibile notizia, ma nessuno trovò il coraggio di andare
fino alla farmacia, a suonare il citofono del gobbo.
Nei giorni successivi,
lui uscì raramente, soltanto per andare al supermercato. Elegante,
perfettamente pettinato (aveva ancora folti capelli grigi), ogni tanto
scambiava due parole con la cassiera o accennava un saluto quando incontrava un
viso famigliare, ma al bar non lo si vide mai.
“E’ diventato uno
stronzo, proprio uno stronzo”, commentavano gli ex compagni di scuola. “Chissà
chi si crede di essere”. “Kevin un cazzo, Gavino è stato battezzato e Gavino
verrà seppellito, quel gobbo di merda”. “Altro che stilista, quello ha messo la
minchia a reddito!”.
Eppure, sotto sotto,
erano fieri di lui.
Un pomeriggio, alla
cassa del supermercato, una signora olandese cercava di domandare alla cassiera
dove si trovasse il veleno per topi. Gavino era in coda. In un perfetto inglese
fece da traduttore. Il resto fa parte della leggenda: la invitò a cena a Luino,
dormì nella villa di lei e, tre giorni più tardi, abitavano insieme. Per il suo
compleanno, lei gli regalò una Jaguar e a quel punto fu evidente che la loro
relazione era una cosa seria.
Con la Jaguar, Gavino
andava spesso a Luino, al caffè Clerici e si sedeva da solo a bere un bianco.
Nessuno sa cosa gli passasse per la testa, ma amava quel luogo e restava anche
un’ora a guardare le barche nel vecchio porticciolo. Proprio lì, una sera di
ottobre, se lo ritrovò davanti uno dei vecchi amici di un tempo: “Gavino, ciao,
mi riconosci?”.
“Certamente, anche se
sei un po’ ingrassato!”.
Scherzarono,
ricordarono un viaggio in motoscafo di trentatré anni prima, si lasciarono
promettendo di rivedersi dal Vanni, a Portovaltravaglia.
Finalmente, una sera di
novembre, la Jaguar passò piano davanti al bar del Vanni. Gavino scese, in
jeans, maglione a collo alto e stivali da cow-boy. Unirono due tavoli e lui
raccontò per mezz’ora dei suoi viaggi a New York, della sua società ora
fallita, dei quattro figli avuti da tre mogli diverse e di molte altre
incredibili avventure.
Venne interrotto:
“Gavino, raccontaci delle donne! Il resto non ci interessa. Quante ne hai
avute?”.
Lui sorrise, poi
sornione sussurrò: “Trecento, forse quattrocento”.
“Ciumbia! Aveva ragione
la truccatrice cicciottella, te la ricordi?”.
“Forza, rivelaci il tuo
segreto: quanto è lungo?”.
“No, non è tanto quello”.
Fece una pausa, poi: “Non ho soltanto la gobba sulla schiena, ma anche…” e
indicò la patta dei jeans. “A New York, una delle mie amanti mi aveva
soprannominato Captain Hook, Capitan Uncino!”.
Risate. Lui proseguì:
“Io me ne vergognavo. Invece la curvatura alle donne piace, le fa impazzire!”.
Tutti risero
fragorosamente, mimando con ampi gesti dell’ombrello l’osceno segreto.
A Natale, chiuse la
casa sopra la farmacia e se ne andò a vivere ad Amsterdam.
La villa della signora
olandese è stata venduta.
Non è più tornato,
nessuno sa se tornerà.
Eppure, dieci anni più
tardi, dopo un paio di bicchieri, capita che qualcuno racconti ancora oggi la
sua storia, la storia di Captain Hook.
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