Quattro anni fa,
quando Alfredo Tocchi mi regalò al ristorante che lui chiamava condominiale una
copia del suo romanzo d’esordio Tra un anno sarò felice, restai negativamente
impressionato dall’incipit: “Finirò male
perché sono un maudit. Ma in fondo, cosa significa? Qualcuno forse finisce
bene?”. Per un vecchio professore in pensione come ero io, il fatto che
quell’uomo apparentemente tanto borghese, ordinario, si fosse definito maudit appariva uno smisurato,
ingiustificabile gesto d’orgoglio. Letto il romanzo, compresi che l’autore
aveva effettivamente subito uno scherzo del Destino (con la d maiuscola – come
usa lui), ma ciò nonostante rimasi della mia opinione: non ci si proclama
uomini appartenenti alla stessa categoria letteraria dei Baudelaire, Rimbaud,
Hamsun e Céline da semplici esordienti. Tra un anno sarò felice è un bel
romanzo, ma ci vuole ben altro per definirsi maudit. Nelle mie conversazioni con l’autore, sempre al tavolo del
condominiale, l’ho indirizzato alla lettura di Hamsun e Céline, che non
conosceva. Tocchi è così, un autodidatta che rifiuta di iscriversi a corsi di
scrittura creativa e legge di tutto – dai romanzi ai trattati di filosofia – in
un ordine assolutamente casuale. Quando, in una memorabile serata (Tocchi aveva
abbordato una vedova di Benevento e l’aveva fatta ridere fino alle lacrime) mi
domandò: “Professore, non crede che dopo avere terminato il mio romanzo io
possa scrivere qualsiasi cosa?”, io gli risposi, laconicamente: “No.” Lui, che
probabilmente ci era rimasto male, si fece una risata, accarezzò Wigo (il suo
inseparabile Lakeland Terrier) e se ne andò a casa, lasciando tutti – e in
particolare la vedova di Benevento – un po’ più soli, un po’ più tristi.
Nonostante il mio evidente scetticismo per le sue capacità artistiche (sono un
uomo disilluso che conosce il mondo dell’editoria), in questi quattro anni ho
letto tutto ciò che Tocchi ha scritto. Ora, dopo la versione edita da Aracne
dei racconti, ho letto l’inizio del romanzo – scritto in inglese - L’éléphant.
Forse sarà
perché oltre a conoscerne l’opera ho avuto modo di sapere qualche cosa della
vita di questo autore (i suoi problemi di salute, il risveglio dal coma, i due
matrimoni, l’abbandono da parte di tutti – famiglia, soci, amici – nel suo
momento più difficile), o forse sarà perché ora l’opera si compone di tre
romanzi (riuniti nella trilogia Ciò che non è stato), molti racconti e due
nuovi romanzi incominciati (La fenomenologia di Husserl e le notti di Milano e, appunto L’éléphant), ma io mi
azzardo ad affermare che l’incipit di Tra un anno sarà felice ha qualcosa di
profetico. Rammento un saggio di Francesco Piga (La verità di Céline: la notte
e la morte) in cui si enumeravano le stimmate caratteristiche dei grandi
scrittori: “Le persecuzioni da parte di
coloro che nel loro quieto vivere si sentono irritati da uno spirito
anticonformista e polemico, l’inappagato desiderio di libertà totale per una
meditazione in solitudine, lontano dagli ambienti in cui tutte le classi
sociali … perseguono con avidità gli stessi miseri privilegi, la ricerca
laboriosa di uno stile personale per esprimere emozioni e ossessioni … il
risultato di una scrittura dai contenuti mai consolatori ma scomodi e
disperanti.”
Aggiungo, nel
caso di Alfredo Tocchi, la costante presenza della morte, amplificata
dall’esperienza vissuta nel reparto di rianimazione, la disperata ricerca di
comprensione da parte di coloro che lui chiama poeticamente “sconosciuti
amici”, l’incapacità di vivere in solitudine con la conseguente idealizzazione
di tutte le donne e l’ossessione di quell’”Essere in due, di nuovo in due,
finalmente in due” tanto ricorrente nei suoi scritti, l’amore per la figlia
Celeste e per il cane Wigo, il rimpianto per un passato prossimo che non
tornerà mai più, l’attaccamento ai luoghi della propria infanzia unito alla
curiosità del vero viaggiatore (davvero degne di nota le pagine su Kiev e su
Donetsk). L’attenzione di Tocchi al dettaglio ha del patologico. Mi dice,
citando Céline (che ora ha letto e amato): “Io sgobbo sul pezzo.” Del racconto
Una seconda chance, scritto in tre giorni per partecipare a un concorso
letterario (limite imposto 30.000 battute), ho letto non meno di dieci
versioni: l’autore ha lavorato per mesi al miglioramento di quindici pagine!
Oggi, quando
penso a Alfredo Tocchi, non penso più a un orgoglioso esordiente. Vedo un
talento non ancora del tutto sbocciato e spero che nei prossimi anni l’opera
maturi fino a giustificare quel profetico incipit. Altrimenti, ci resteranno
alcune pagine magnifiche, personaggi indimenticabili e i pensieri di un puro
anticonformista. E andrà bene lo stesso.
Mario Caccamo,
17 maggio 2015
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