lunedì 3 novembre 2014

Philip Roth

Philip Roth
Se Philip Roth si chiamasse Filippo Rossi, abitasse a Busto Arsizio, insegnasse alla Libera Università di Castellanza e scrivesse quello che ha scritto, non troverebbe un editore. Sarebbe soltanto un povero cristo che ha passato buona parte della sua vita ossessionato dalla sua virilità, messa a "dura" (si spera) prova con le sue studentesse. Le nostre vite non interessano a nessuno, le nostre storie, ambientate qui ai confini del mondo occidentale, scritte in una lingua marginale, non valgono la carta per stamparle. Eppure Philip Roth ha tutti pregi ma anche tutti i difetti degli scrittori ebrei americani. Io stesso gli preferisco Paul Auster, più affine alla mia sensibilità. Vi sono pagine dove i personaggi di Roth suonano falsi, stonati. E' un intellettuale raffinato ma mai quanto Milan Kundera o Sandor Marai. Scrivere come lui, che è un gigante, è naturalmente impossibile. Ma imitarlo male da Portovaltravaglia sarebbe davvero patetico. Eppure qui abbiamo un vantaggio rispetto a Roth: siamo al centro della decadenza del mondo occidentale e più vicini ai fermenti dei barbari alle porte. Ma nessuno, proprio nessuno è all'altezza del compito che ci spetterebbe: testimoniare lucidamente dalla frontiera la caduta nell'oblio dell'Europa di Voltaire. Noi italiani siamo portati alla commedia, non alla tragedia, alla leggerezza (nel senso dato da Calvino nelle Lezioni Americane), non alla pesantezza. Questo limite fa sì che la nostra letteratura - su scala mondiale - non esista. Non ci sono margini economici perché gli agenti e gli editori si attrezzino per essere critici competenti. Paga adeguarsi al livello subumano degli spettatori della TV. Se la cultura e la competenza non sono valori, tutti si sentono autorizzati a scrivere. Scrivere, diventare parlamentari, ministri, presidenti del consiglio. Arriva in alto chi riesce a risultare credibile - in una farsa continua - in TV. Chi è serio non può emergere mai. Emergono i ciarlatani. Renzi docet. Inoltre, per uno scrittore scrivere è inutile perché non ci sono lettori. La lettura è un piacere sorpassato che richiede silenzio, tempo e concentrazione. Chi legge in metropolitana non può capire Voltaire, ma neppure alcuni sublimi concetti filosofici di Kundera. I premi letterari sono come le mostre di pittura nei paesi. Quale grande artista è stato riconosciuto tale per la strada? Occorrono un critico, un mercante, molta fortuna e determinazione. Non uno spazio tra i cavalletti in un vicolo affollato da turisti in gita domenicale. Mi sarebbe piaciuto studiare letteratura negli Stati Uniti (come ho studiato legge in Canada), ma l'ho compreso a 48 anni. Ora è tardi, fa parte di ciò che non è stato. Non scrivo più, non commento quasi mai i libri che leggo. Rispetto Silvio Raffo e Andrea Vitali, ma essere giudicato da loro ai Premi Guido Morselli e Piero Chiara non è come essere letto e giudicato da Jonathan Tropper. Ho avuto la fortuna di essere compreso come scrittore da Massimiliano Comparin e mi ha fatto piacere, perché lo stimo come scrittore. Che importa se in molti mi hanno deriso? Chiunque mostri un lavoro individuale si espone alle critiche, è normale. Ho chiuso un romanzo con una frase emblematica: "Non venite a salvarmi, anche voi siete naufraghi." Magari ve ne accorgerete tra un po', ma come canta Caparezza: "Da qui se ne vanno tutti." Me ne andrò anch'io, senza che nessuno senta la mia mancanza tranne me. Perché il coma mi ha dato la rara possibilità di osservare la mia vita da un diverso punto di vista e l'unica perdita che mi fa soffrire non è per ciò che non è stato, ma per ciò che è stato e non sarà mai più.
In tutto questo, cosa fa Mondadori? Pubblica uno scrittore già baciato dal successo, uno che anche quando va a Roma negli studi televisivi (dicendo in diretta che lui non ci va) compare vestito da rocciatore di dubbio gusto, con tanto di bandana. L'ultimo libro di Mauro Corona è spazzatura. L'autore ci propina il solito sermone sulla superiorità dell'uomo della montagna, con la stessa pedanteria con cui Tolstoj, ormai vecchio e sconvolto dalla paura della morte (dopo averne preso coscienza scrivendo La morte di Ivan Il'ic - con un finale giustamente criticato da Emil Cioran per la sua banalità) cerca di convincerci che i servi della gleba sono migliori degli aristocratici. Stantii luoghi comuni, Ma il punto è: qual è il messaggio di questi autori? Dovremmo forse nel 2015 vestirci tutti da montanari o da servi della gleba e fare finta di essere ignoranti, non contaminati dal sapere, dal progresso, dalla tecnica? Dovremmo recuperare stili di vita perduti per sempre, regredendo fino a dove? Forse il pitecantropo era ancor più felice dei montanari e dei servi della gleba. Dovremmo tornare nelle caverne? Lo dico chiaramente, per evitare ogni equivoco: vorrei essere pubblicato da Mondadori. Sarebbe il coronamento del sogno della mia vita. Cosa devo fare? Un terzo episodio ischemico potrebbe rendermi idiota come i nostri acclamati autori di successo?

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