mercoledì 20 marzo 2019

L'éléphant

Secondo una celebre frase di Gregor von Rezzori, lo scrittore è un uomo che passa il proprio tempo contemplandosi l'ombelico. Il narcisismo è una costante, l'onanismo motivo di vanto, l'autocompiacimento a volte imbarazzante. Tutte queste, tuttavia, sono caratteristiche dei cattivi scrittori (per quanto - a volte - di successo). Del resto, per scrivere occorre essere soli, chiudersi in una stanza, attuare una specie di sospensione dalla vita, isolarsi in un mondo di fantasia. “Lo scrivere è proprio questa contraddizione che dal fallimento di una comunicazione crea una comunicazione ulteriore, che è parola per gli altri, ma parola senza l’altro.”(Roland Barthes, Miti d’oggi). Quasi quattro anni fa, Alfredo Tocchi mi fece leggere l'incipit del suo nuovo, quinto romanzo L'éléphant: "Vorrei scrivere un romanzo di fantascienza distopica, come Noi di Zamjatin, Il mondo nuovo di Huxley o 1984 di Orwell, ma soprattutto come Dissipatio H.G. di Morselli, perché vorrei mandarlo al Premio, dal Professor Silvio Raffo".
L'idea mi sembrò buona, ma di difficile realizzazione per chi, come Tocchi, sembrava più portato per il Mainstream. Inoltre, in Italia, gli esempi di romanzi di fantascienza di successo sono pochissimi. Nel 2015, dopo aver letto le prime dieci pagine, in inglese, de L'éléphant, scrissi che ne ero rimasto ben impressionato: magnifico il prologo, che utilizza le parole del Vangelo di Giovanni e dell'Apocalisse per dare un tono di sacralità all'opera, altrettanto bello il passaggio alla narrazione in prima persona da parte di un ragazzino di 14 anni (Kim, che nella versione finale ne ha 16). Erano soltanto poche pagine, ma veniva voglia di conoscere il seguito, anche perché, assicurava l'autore, "La fine è bellissima!".
Tocchi è così, un entusiasta che non inizia un romanzo se non ne conosce la fine. Poi, per più di tre anni, nulla. La vita è andata avanti, ho letto con piacere le recensioni di Confessioni di un pazzo di raro talento, La principessa del carnevale di Rio, Undici al 17 su Nuove Pagine e Mangialibri (e l'intervista su Mangialibri), ma L'éléphant non arrivava. Ora è qui, sul mio Kindle e da pochi minuti ho terminato la lettura. L'urgenza di scriverne è tale che lo faccio in piena notte, dettando in fretta per non dimenticare nessuna delle cose che mi sono venute in mente ma non mi sono appuntato per non interrompere la lettura. L'éléphant non è un romanzo per tutti. Forse, non è neppure un romanzo. Fiaba filosofica intrecciata a un saggio sul transumanesimo, contiene una poesia, un discorso di Solgenitsin e persino un saggio su Kafka di Citati! Ancora una volta, Tocchi si dimostra un innovatore. Potremmo accostare la struttura dell'opera ai quadri di Mimmo Rotella: il materiale eterogeneo si fonde con un risultato armonico, fortemente espressivo. Già Undici al 17 conteneva riflessioni filosofiche, sociologiche e religiose, ma ciò che era (volutamente) abbozzato (e per questo, forse, scarsamente comprensibile, come notato da David Frati nella sua recensione), qui è compiutamente sviluppato e scritto magistralmente. Il libro nero (che riprende concetti di Auguste Comte, padre del positivismo), è un esempio di come andrebbe approcciata (nelle scuole) la divulgazione filosofica. Pur nella sua brevità, L'éléphant è un libro assolutamente compiuto: la trama è avvincente, i temi trattati fondamentali (transumanesimo e religiosità). La lettura è interessante anche per chi - come me - non fosse al corrente dei reali contenuti del transumanesimo. Vi sono spunti geniali (i cibi colorati, il giardino degli amori, il travisamento dei principi della rivoluzione francese, i droni impollinatori, la città dal nome Gaia Scienza in omaggio a Nietzsche), passi fortemente lirici - veri e propri pianissimo - e contrappunti: insomma, la musicalità della prosa dell'autore già notata dalla Professoressa Giovanna Romanelli nella sua recensione su Le colline di Pavese (il compianto Professor Luigi Gatti ha premiato Tocchi per ben due volte, nel 2012 - primo classificato nella Sezione Narrativa Inedita - e nel 2015 - menzione di merito!). Tuttavia, sono i dialoghi a sorprendere, per la loro semplice naturalezza e le chiose dell'autore, profonde e persino spiritose (degne di nota quella in calce al discorso di Solgenitsin e alla "epifania dell'autore"). Scrivere un romanzo come L'éléphant è tutt'altro che semplice. La fantascienza distopica richiede autori all'altezza del compito, colti, intelligenti e tecnicamente capaci. Forse è per questo che Tocchi ha abbandonato la lingua inglese e, dopo quattro anni di rinvii, è tornato all'italiano. Peccato, perché questo romanzo - in inglese e nelle mani di un buon editore - avrebbe tutte le caratteristiche per diventare un classico del genere e, nelle mani di un bravo regista, un film meraviglioso.
Mi spingo a fare una simile, forte, affermazione, influenzato dalla diretta conoscenza dell'autore, ma soprattutto dal suo percorso narrativo, esemplare, che definirei: io, noi, il mondo. Partendo dal Mainstream di Da A a B (la contemplazione dell'ombelico, che però era già del tutto peculiare dato che gli io narranti erano tre più un narratore), passando per l'indagine sociologica di Undici al 17, è approdato al mondo con L'éléphant, portando a termine una splendida trilogia. Consiglio a tutti di leggere Tocchi in quest'ottica, anche perché già sette anni fa alla presentazione di Tra un anno sarò felice era stato lui stesso a preannunciarci cosa avrebbe scritto. Bene, ha impiegato otto anni e mezzo della sua vita (settembre 2010, marzo 2019), ma ha fatto ciò che aveva promesso, a conferma della sua determinazione a farsi conoscere.  
Professor Mario Caccamo, 20 Marzo 2019