Vivere, cercare la propria via, inseguendo la verità, che significa rifuggendo la falsità. Accettare il proprio Destino, qualunque esso sia. Rassegnarsi alla malattia, se così deve essere. Rassegnazione non significa affatto disperazione: la persona equilibrata - seppure rassegnata - gioca le sue carte al meglio delle proprie possibilità. Questo è stato l'insegnamento di Adriano Brusaferri, uomo dal Destino eroico, che ha affrontato la malattia con straordinario coraggio e non si è nascosto dietro alla malattia, non l'ha utilizzata come alibi. Mai. Sempre sorridente, pronto ad ascoltare, attento agli altri nonostante il terribile lavorìo della malattia, che ci costringe a ripiegarci su noi stessi, a passare il tempo guardandoci l'ombelico. L'universalità del male a volte risparmia qualcuno ed è ingiusto, profondamente ingiusto il modo in cui premi e castighi sono ripartiti, ma noi esseri umani abbiamo dentro un innato ideale di giustizia e potremmo rendere il mondo un luogo migliore se soltanto non ci rassegnassimo, se non lasciassimo le cose così come stanno, se davvero c'impegnassimo per migliorare ciò che è in nostro potere migliorare. Il cambiamento, spesso, inizia dalle piccole cose: il sorriso di Adriano era una sfida alla sofferenza, una risposta profondamente umana contro l'ingiustizia. Un uomo dal Destino eroico non è un imbelle burattino in balia delle circostanze ma un uomo che trionfa sulle circostanze, le utilizza per imprimere la sua impronta sulla vita. Grande serietà, competenza, dedizione, talento hanno consentito ad Adriano di diventare uno tra i migliori fotografi della sua generazione. Tutt'altro che imbelle, era un duro. Nel suo ultimo messaggio, quando immagino che stesse indicibilmente male, mi ha rimproverato energicamente per la mia tendenza a lamentarmi della vita, la mia vita, per la stanchezza e la disperazione che traspariva dai miei scritti. Qui sta la grande differenza: c'è chi porta la sua croce col sorriso sulle labbra e chi la porta bestemmiando: io sono tra i secondi. Il suo rimprovero è stato come una scossa: mi ha fatto comprendere la mia debolezza. Il vittimismo dà fastidio, isola, non consente di costruire nulla. Anche per questo, oggi, davanti alla sua bara ho pianto. Anche per questo, lo porterò per sempre - il mio piccolo sempre umano - nel mio cuore.
mercoledì 6 giugno 2018
Adriano Brusaferri, in morte di un amico
“Se le malattie hanno una missione filosofica, non può essere che quella di mostrare quanto sia illusorio il sentimento dell’eternità dell’esistenza e quanto fragile il sogno di un compimento della vita… Le sofferenze ci legano a realtà metafisiche che un uomo normale e in perfetta salute non capirà mai”. (Emil Cioran, Al culmine della disperazione). Io non ho fede, non credo nella vita eterna, nella resurrezione del corpo o in quella dell'anima. Agnostico, so di non sapere, i nostri cinque sensi non sono sufficienti per squarciare il velo dietro il quale - forse - troveremmo un significato. L'unico senso della vita, è la prosecuzione della vita stessa: questa almeno mi pare una verità. Ma è davvero auspicabile legarsi a realtà metafisiche, riflettere sulla verità, sulla vita? Già Dostoevskij ci ha messo in guardia: “Vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia”. (Fëdor Dostoevskij, Memorie del sottosuolo). Accettare il proprio Destino, trovare la nostra via nella vita. Gesù disse: "Io sono la via, la verità e la vita". Di nuovo, mi torna in mente una riflessione di Emil Cioran: “È chiaro come il sole che Dio era una soluzione e che non ne troveremo mai una altrettanto soddisfacente”.
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